Transizione energetica: l’illusione del metano come “soluzione ponte”

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Il metano come scelta transitoria per approdare alle rinnovabili non ha ragione di essere, se non marginalmente e temporaneamente a fronte della chiusura delle centrali a carbone. Purtroppo non è quello che c'è scritto nel PNIEC.

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Da qualche anno, il ruolo del metano nella transizione energetica verso le fonti rinnovabili è messo in discussione. Più recentemente si è infatti ripresentato il problema delle perdite in atmosfera di metano incombusto, a causa della sua recente crescita e del suo ruolo di forzante nell’accelerazione dei cambiamenti climatici.

Recentemente si è potuto quantificare l’importante peso delle nuove estrazioni di shale gas, mettendo fine all’illusione non solo del metano come fonte “di transizione”, ma anche di mitigazione parziale rispetto ad altri combustibili fossili. È necessario ridurre e osteggiare l’estrazione e il consumo di metano, per fermare la crisi climatica, almeno quanto il petrolio e il carbone. Ecco perché il Piano Energia e Clima che il governo italiano ha presentato va radicalmente modificato. 

Perché cresce il metano in atmosfera?

È noto che la molecola CH4 abbia un “effetto serra” maggiore della CO2, ma grazie a una emivita di 10 anni, non ha destato più di tanto preoccupazione: infatti, dopo dieci anni metà del metano si trasforma in vapore d’acqua e in CO2, come – consentitemi la semplificazione – se si trattasse di una lenta combustione prolungata negli anni.

Se la presenza di metano nell’atmosfera non cresce, perché quella nuova emessa ogni anno è pari alla quantità che si ossida spontaneamente (il 2%), il metano ha un “effetto serra” costante e limitato. Per questa ragione sino ad ora ci si è preoccupati essenzialmente della continua crescita delle emissioni di CO2, rispetto alle quali il metano, pur svolgendo la sua parte di “colpevole” tra i combustibili fossili, si presentava ancora come “il più pulito”.

Infatti, a parità di apporto energetico, il metano è responsabile di minori emissioni CO2 rispetto al petrolio (25% in meno) e ancor meno del carbone (quasi la metà). Quindi, il metano non fa bene al clima, ma è meno peggio di altri combustibili fossili. 

Una spiegazione più documentata e rigorosa la trovate in questo post di Realclimate tradotto in italiano.

La preoccupazione è cresciuta quando la presenza media del metano nell’atmosfera terrestre, pur aumentata dal 1750 ad oggi da 0,7 a 1,8 ppm (parti per milione), dopo un periodo di sostanziale stabilità tra il 1990 e il 2007, è ripresa a salire rapidamente (sopra grafico del NOAA sul trend storico delle medie mensili delle concentrazioni globali di metano in atmosfera).

Quale poteva essere la causa?

Si sono accusati gli allevamenti bovini, il maggior consumo di gas naturale e le relative fughe del sistema estrattivo e distributivo; si è puntato il dito sul “fracking”, il nuovo sistema estrattivo dello “shale gas” basato sulla frantumazione idraulica delle rocce argillose ricche di idrocarburi, sviluppato da una quindicina d’anni soprattutto nel Nord America. Ma non si avevano ancora le prove scientifiche definitive.

Una nuova ricerca di Robert W. Howarth pubblicata da una delle più autorevoli riviste scientifiche del settore, ha raccolto le analisi del metano presente nell’atmosfera terrestre negli ultimi anni e ne ha studiato per così dire il “DNA” del carbonio. Il carbonio infatti ha diversi isotopi. Due di questi sono stabili (il carbonio 12 e il carbonio 13): è noto ai più il carbonio 14 che, essendo instabile, permette la datazione dei reperti archeologici. Ebbene, si è scoperto che le molecole con carbonio stabile 12 e 13 hanno comportamenti chimici leggermente diversi e permettono quindi di individuare con precisione l’origine chimica del metano presente in atmosfera.

Il metano con una maggior presenza di isotopo 12 (molecole più leggere e reattive) ha un’origine biologica (biogenica), da paludi, allevamenti bovini, risaie, discariche. Quello con una maggior presenza di isotopo 13 , che si è liberato spontaneamente da depositi superficiali o da attività minerarie in fase di estrazione, deriva dai giacimenti fossili. Oppure “pirogenica”, cioè dalla combustione incompleta nelle abitazioni o nell’industria.

Ebbene il nuovo “shale gas” ha una ben definita composizione isotopica propria, intermedia tra il metano di origine biogenica e quella fossile. In questo modo Howarth è riuscito a spiegare la nuova impennata della presenza nell’atmosfera di metano, distinguendo tra le componenti “storiche” e le nuove concentrazioni, dovute ai giacimenti di shale gas e al metodo estrattivo capace di liberare maggior quantità di idrocarburi e inquinare le acque. Ha spiegato in questo modo anche il calo in atmosfera di quantità di carbonio isotopo 13.

Howarth conclude che “le maggiori emissioni di metano da combustibili fossili probabilmente superano quelle provenienti da fonti biogeniche nell’ultimo decennio (dal 2007). L’aumento delle emissioni di gas di scisto (forse in combinazione con quelle di olio di scisto) costituisce per oltre la metà dell’aumento totale delle emissioni di combustibili fossili. Quindi la commercializzazione di gas di scisto e petrolio nel ventunesimo secolo ha aumentato notevolmente le emissioni globali di metano”.

Cosa succede se il metano aumenta?

Il Global Warming Potential (GWP), il potenziale climalterante di un gas, è riferito ad un arco temporale (tipicamente assunto pari a 100 anni) per il quale vale il confronto con l’anidride carbonica: ebbene, il GWP del metano in 100 anni è pari a 25, quindi ai fini del riscaldamento globale provocato da una tonnelata di metano equivale a quella di 25 tonnellate di anidride carbonica.

Siccome il metano in atmosfera è 200 volte meno della CO2, l’effetto sul clima (in cent’anni) è un decimo della CO2. Come dire che, se smetteremo di usare il metano fossile e mangeremo sempre meno carne bovina, nel 2120, i nipoti di Greta Thumberg non subiranno conseguenze apprezzabili dal metano liberato oggi. Ma la generazione Greta Thumberg (e noi con lei) starebbe meglio se estrazione e consumo di metano, compreso shale gas, crescessero ancora un po’, invece di diminuire drasticamente?

Il metano è un gas serra molto più potente della CO2, specialmente su tempi brevi: 72 volte nei primi 20 anni dalla sua dispersione in atmosfera. La “forzante” climatica del metano avrebbe in questo secolo un ruolo decisamente più sensibile: “conterebbe” come un aumento di un terzo delle emissioni di CO2.

Resta ora da stabilire se le perdite sistemiche di metano sono in grado o meno di annullare i vantaggi climatici di questo gas rispetto agli altri combustibili fossili, come il petrolio o persino il carbone.

Pur tenendo in debito conto che anche petrolio e carbone comportano rilasci in atmosfera lungo il loro ciclo di vita, è molto probabile che, nella generalità dei casi, i vantaggi del metano in fase di combustione (-20% delle emissioni del petrolio e -40% del carbone a parità di energia generata), vengano spesso ridimensionati e dipendano fortemente dall’origine (giacimento e sistema di estrazione) e dalla trasformazione energetica (tecnologia e efficienza di sistema del servizio utile generato).

Non è più generalmente vero che metano è meglio, almeno dal punto di vista delle emissioni climalteranti.

Dal metano c’è ancora da attenderci un miglioramento ambientale? Formuliamo alcuni esempi generali per meglio comprendere quando conviene o meno usare il metano.

Primo esempio

La produzione di elettricità (vedi Agenzia ISPRA). Le centrali elettriche alimentate a carbone hanno in Italia un rendimento medio di conversione del 34%, le moderne a petrolio del 51%, a gas ciclo combinato anche del 56%. È quindi evidente che, per produrre elettricità da fonte fossile, conviene senz’altro usare metano, non solo dal punto di vista delle emissioni climalteranti (CO2, metano e ossidi d’azoto), ma anche e soprattutto dal punto di vista degli inquinanti dannosi per la salute e l’ambiente, come ad esempio le polveri e i composti carboniosi.

Nel 2017 il carbone ha generato 33 TWh di elettricità su 295, circa l’11% dell’elettricità prodotta in Italia, mentre le fonti rinnovabili, vecchie e nuove, nel 2018 ben il 39%.

Quindi se tutto il carbone fosse sostituito da metano, usando le esistenti centrali a ciclo combinato, diminuiremmo le emissioni di CO2 di ben 15 milioni di tonnellate.

Se invece la stessa quantità di elettricità venisse prodotta da nuove fonti rinnovabili ridurremmo di 26 milioni di tonnellate. E’ ragionevole una iniziale sostituzione del carbone equilibrato tra rinnovabili e metano, usando le capacità inutilizzate della attuali centrali a metano usate poco.

Secondo esempio

Carburante per autotrazione. In questo caso l’alimentazione a metano non aumenta generalmente i rendimenti, anzi spesso, per i motori non progettati per il gas o sottoposti a carichi importanti (come i camion), rendimenti e emissioni di CO2 al km in genere peggiorano. Inoltre, dal punto di vista delle emissioni dannose per la salute (particolato, ossidi d’azoto, composti organici), i veicoli a metano sono da considerarsi assimilabili a quelli alimentati a benzina, almeno per le categorie emissive dagli Euro4 in poi.

Quindi, nei trasporti, non possiamo attenderci alcun miglioramento dal metano. Molto meglio migrare subito all’elettrico con mezzi pubblici, condivisi o leggeri, come ebike e micromobilità, soprattutto per chi non può permettersi o usare efficientemente automobili elettriche.

Tutt’al più, ci aspettiamo una riduzione dei gas climalteranti dal biometano per i grandi camion e i mezzi navali per lunghe tratte, dai mezzi cioè non convertibili all’elettrico.

Terzo esempio

Nelle abitazioni la metanizzazione del riscaldamento (al posto della nafta o del cherosene) e la sostituzione delle cucine domestiche a legna o carbone con le cucine a gas ha rappresentato nel secolo scorso un indubbio progresso, sia dal punto di vista della salute che dell’impatto sul clima. Tutto il buono che potevamo attenderci dal metano nelle nostre case e nelle nostre città è però già stato ottenuto.

Per un futuro meno inquinato, con più sicurezza, maggior salubrità e miglior qualità della vita in casa e in città, dobbiamo cominciare a ridurre il consumo di metano: le abitazioni efficienti ad emissioni ridotte, dotate di impianti rinnovabili, cucine ad induzione, pompe di calore non avranno più il contatore del gas.

Nel Piano Energia Clima (PNIEC) c’è troppo metano

Come si vede bene dagli esempi generali di cui sopra, per ottenere una coerente e graduale decarbonizzazione in Italia non c’è proprio motivo di attendersi un aumento del consumo di metano nei prossimi anni.

Il metano come risorsa di transizione, come “soluzione ponte” per approdare alle rinnovabili, non ha ragione di essere, se non marginalmente e transitoriamente a fronte della chiusura delle centrali a carbone.

Purtroppo non è quello che sta scritto nel Piano Energia Clima (PNIEC) del governo. Il Piano prevede infatti una riduzione del consumo di energia primaria da 155 Mtep (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio) a 135 Mtep al 2030: ma si tratta solo del 5% in meno di quanto già spontaneamente industria e comportamenti individuali avrebbero fatto anche senza politiche pubbliche.

Viene certo confermata l’uscita dal carbone nella produzione elettrica, ma il petrolio diminuisce solo dal 36 al 31%. La percentuale del gas fossile rimane il 37% del totale del fabbisogno primario e solo per il 2040 una riduzione della sua percentuale al 33%. Le fonti rinnovabili crescono solo dal 18 al 28%.

Nell’approssimazione dei dati quantitativi presenti nel PNIEC (la Commissione Europea e la stessa Valutazione Ambientale Strategica del piano riconosce l’impossibilità di una valutazione quantitativa), questo significa che il consumo di questo gas metano al 2030 sarà sostanzialmente quello di oggi, attorno a 60 – 70 miliardi di metri cubi.

A confermare tale ipotesi anche le stime di emissione in atmosfera (dal suolo italiano) di metano: da 41 a 38 milioni di tonnellate CO2 equivalenti. Non cambiano i consumi, non cambia l’inquinamento da metano al 2030.

Si conferma, in relazione alla sicurezza energetica nazionale, la partecipazione di Snam, Eni e Italia ai nuovi metanodotti, così come la necessità di dotarsi di nuovi terminali (“gassificatori”) di importazioni di GNL (gas liquefatto) anche da paesi impegnati nell’estrazione di “shale gas”.

Il paradosso è che i metanodotti esistenti sono stati in grado di accogliere importazioni pari a 86 miliardi di Nm3 nel 2006 (20% più di oggi): a cosa serve avere più metanodotti e aumentare le importazioni?

Si confermano poi tutte le politiche infrastrutturali per incrementare i consumi (metanizzazione della Sardegna, distribuzione per l’autotrazione, GNL), così come le politiche fiscali ultra favorevoli: il metano è l’unico carburante ad avere accise e tasse bassissime sino al 2030. Paga tasse centinaia di volte meno di benzina e gasolio, di altri biocarburanti avanzati (da rifiuti), decine di volte meno dell’energia elettrica, persino dell’elettricità rinnovabile. Per il metano fossile, più inquini e meno paghi.

Se il PNIEC non cambia, se la realtà non costringerà il governo a mutare politiche in questi prossimi dieci anni, l’esito sarà una riduzione talmente esigua delle emissioni climalteranti nazionali, da venir compensata dalle emissioni indirette provocate dalle perdite di metano dal pozzo al consumo finale.

Questo articolo, leggermente modificato, è stato pubblicato anche sulla rivista Valori.

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