Costi alti e difficili da quantificare, finanziamento praticamente impossibile senza un aiuto pubblico, impatto irrilevante nel ridurre i prezzi elettrici.
E ancora: tempi di realizzazione difficilmente compatibili con gli obiettivi su clima ed energia e criticità note, quali lo smaltimento delle scorie, la dipendenza da paesi inaffidabili per l’uranio, l’impatto sulle risorse idriche e i probabili fenomeni di Nimby.
In estrema sintesi sono questi gli elementi che portano Banca d’Italia a dire che “è necessario adottare un approccio prudente nel considerare il ruolo che la reintroduzione del nucleare potrebbe avere nel raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione fissati dal Governo, valutando e preparando anche strategie alternative”.
“L’ampliamento del dibattito” anche al nucleare sulle opzioni disponibili, “stimolato dalle recenti iniziative governative — e aperto anche a tecnologie ancora in fase di sviluppo — offre potenziali vantaggi a condizione che non ostacoli né rallenti il progresso di altre strategie per la diversificazione del mix energetico, in particolare l’espansione delle fonti rinnovabili”, avverte il dossier di Bankitalia “L’atomo fuggente: analisi di un possibile ritorno al nucleare in Italia” (allegato in basso).
Un lavoro firmato da Luciano Lavecchia e Alessandra Pasquini, che, per la completezza e l’abbondanza di riferimenti alla letteratura scientifica più aggiornata, contrasta con la vaga documentazione prodotta dalla Piattaforma sul nucleare governativa, per non parlare delle fumose risposte sui costi date dal ministro Pichetto in aula nei giorni scorsi (leggi più in basso).
“La creazione di nuovi impianti nucleari – avvertono gli autori del report Bankitalia – difficilmente potrà esimersi da una compartecipazione del pubblico, o come investitore diretto, con finanziamenti o sussidi, oppure indirettamente, mediante società partecipate”.
Inoltre, si ritiene che una reintroduzione del nucleare “non avrebbe significativi impatti” sul livello dei prezzi, mentre sul fronte della dipendenza energetica, la riduzione delle importazioni di idrocarburi sarebbe compensata da una maggiore importazione della tecnologia e del combustibile per la produzione nucleare, in questo momento “concentrati in paesi geo-politicamente poco affini all’Italia”.
Tecnologie incerte
Un altro elemento importante che emerge dall’analisi, sono “le incertezze legate alle tecnologie scelte” che “rendono opportuno un approccio cauto”.
Nel 2024 vi erano 98 progetti basati su tecnologie Smr, Amr o Mmr nel mondo, di questi solo tre operativi. Ma si tratta di tecnologie non sono ancora effettivamente disponibili per un uso commerciale e quali potranno essere tempistiche e costi è difficile da prevedere, si osserva.
La prevalenza dei costi fissi, si spiega, rende gli investimenti nelle attuali tecnologie a fissione nucleare estremamente sensibili al costo del capitale che, a sua volta, dipende sia da fattori tecnologici e operativi (ad esempio se l’impianto è un prototipo, oppure no), sia da fattori di tipo finanziario (il merito di credito del costruttore; la garanzia di un adeguato cash-flow a centrale operativa), sia da fattori istituzionali (l’incertezza normativa e politica).
Per gli impianti nucleari, i ritardi sono la regola: ciò comporta un fabbisogno finanziario che, confrontato con l’investimento, è molto rilevante.
A titolo di esempio, i costi degli interessi di una centrale realizzata in cinque anni e con tasso di interesse del 5% sono pari al 17% dei costi diretti di costruzione (che non tengono conto dei costi finanziari dell’impianto). Se una centrale con gli stessi costi diretti viene realizzata in sette anni e con un tasso di interesse del 10%, tale percentuale sale al 49%, spiegano gli autori (citando De Paoli, 2025).
I dubbi sui costi
Gli effettivi costi delle nuove tecnologie nucleari, prosegue il dossier, “presentano un’elevata incertezza perché nella gran parte dei casi non sono ancora stati costruiti i first-of-a-kind”.
Si citano poi Steigerwald et al. (2023) sui costi di 19 diversi progetti di Smr, Amr o Mmr: per tutte le tecnologie analizzate i costi stimati sono, talvolta significativamente, maggiori di quelli dichiarati dai produttori, soprattutto per alcuni tipi di Amr, si legge nel documento.
Gli Lcoe stimati vanno dall’incredibile range di 805-7.519 $/MWh per i sodium-cooled fast reactor, ai 188-991 $/MWh dei boiled-/pressurized-water reactor, fino ai 99-158 $/MWh degli high-temperature gas cooled reactor.
“Considerando una misura di costo sviluppata dalla Iea che incorpora il contributo della tecnologia all’efficienza del sistema energetico (c.d. Valcoe), al 2040 in Europa i nuovi impianti nucleari di piccole dimensioni sarebbero competitivi con il fotovoltaico utility-scale con sistemi di stoccaggio solo a fronte di un costo del capitale particolarmente basso”, sottolinea il report di Bankitalia.
Dipendenza dall’estero, scorie e acqua
Costi a parte, il dossier tocca poi altri punti deboli della strategia nucleare.
La produzione di uranio naturale è concentrata in 17 paesi, 6 dei quali – Kazakistan, Canada, Namibia, Australia, Uzbekistan e Russia – nel 2022 coprivano da soli il 90% del totale. Il 43% dell’uranio viene estratto in Kazakistan.
Per la maggior parte si tratta di fornitori tutt’altro che affidabili, si sottolinea citando una serie di eventi quali le proteste civili del 2022 in Kazakistan che hanno fatto riavvicinare il paese alla Russia, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, la revoca alla francese Orano e alla canadese GoviEx Uranium (rispettivamente, a giugno e a luglio 2024) dei permessi di sfruttamento di uranio in Niger. La giunta militare nigeriana, come in altri paesi del Sahel, sta forzando il ritiro delle truppe (e delle società) dei paesi occidentali in cambio dell’appoggio militare della Russia.
C’è poi la questione scorie: al momento l’Italia non dispone di luoghi dove conservarle. Alcune delle nuove tecnologie in progettazione prevedono strategie innovative per il riciclo dei rifiuti radioattivi, che ne riducono la tossicità. D’altro canto, altre potrebbero generarne nuove tipologie di rifiuti, che richiederanno la riprogettazione dei sistemi di stoccaggio.
C’è poi il problema delle risorse idriche: si cita il caso della Francia, dove le centrali, pur reimmettendo il 97% dell’acqua prelevata, sono responsabili del 12-14% del consumo idrico totale.
“Il nucleare determina un impatto sull’ambiente in termini di scorie prodotte e utilizzo di risorse idriche. Data l’elevata incertezza e variabilità sulle caratteristiche delle nuove tecnologie è difficile determinare l’impatto che un’eventuale reintroduzione del nucleare, basata su di esse, potrebbe avere in questi termini”, si legge nel report.
Bankitalia ricorda poi la questione Nimby che potrebbe, di fatto, rendere quasi impossibile costruire le centrali. Due volte il programma energetico nucleare italiano è stato interrotto da referendum e anche nell’ipotesi in cui la reintroduzione del nucleare “venisse accettata dalla maggioranza della popolazione, l’effettiva costruzione delle centrali potrebbe essere ostacolata da forme di opposizione locale”.
Finanziamento impossibile senza il pubblico
In questo contesto, chi sarà disposto a metterci i soldi? La risposta breve è: solo lo Stato.
Questo perché, si legge, finanziare impianti nucleari è tra i progetti più costosi per un paese, alla pari di grandi progetti di trasporto, ma con superiori gradi di incertezza e rischio: “è difficilmente sostenibile solo da attori di mercato privati”.
Incertezza e probabili ritardi, oltre al rischio regolatorio, verrebbero scontati dagli investitori, richiedendo un maggior rendimento per compensare il premio per il rischio, che inciderebbe sul costo del finanziamento.
Se per alcuni l’introduzione delle nuove tecnologie di piccole dimensioni, come gli Smr, potrebbe in parte mitigare gli alti costi e ridurre il grado di incertezza e rischio, “la letteratura scientifica non ha una posizione univoca” nel riconoscere questi vantaggi alle nuove tecnologie né nel valutarne l’impatto sui costi, soprattutto in termini di compensazione delle diseconomie di scala legate alla minore potenza degli impianti, si osserva (citando Mignacca e Locatelli, 2020).
Ricorrere al credito bancario per finanziare progetti nucleari è estremamente complicato. L’impegno finanziario, “oltre ad essere consistente e spesso soggetto a significativi aumenti imprevisti, va oltre i normali orizzonti temporali del credito bancario alle imprese”, dato che servono tra i 10 e i 20 anni dall’inizio lavori al primo incasso, “ben oltre i tempi usuali di valutazione di un finanziamento di questo tipo”.
Anche il ricorso alle banche multilaterali di sviluppo, come strategia di de-risking, in particolare per paesi in via di sviluppo, è difficilmente realizzabile, se non affiancato da finanziamenti privati con un partner pubblico che si prenda la fetta più grande di rischio: “il valore dell’investimento in un singolo impianto supera i prestiti annuali per finalità energetiche dell’insieme delle prime otto banche multilaterali”.
Resta la strada dei green bond o altri strumenti di debito sostenibili, possibili nell’Ue grazie all’introduzione del nucleare nella tassonomia delle attività sostenibili: l’attrattività di tali strumenti finanziari però “rimane fortemente limitata dalla rischiosità di questo tipo di investimenti, soprattutto nel caso della costruzione ex-novo di centrali. Inoltre, dati i tempi molto lunghi, è necessario prevedere, anche attraverso clausole, come gestire il rischio dell’inflazione una volta che la centrale genererà ricavi per non erodere il valore dell’investimento”.
Perché dovremmo pagare noi e la versione di Pichetto
L’unica soluzione è che a pagare siano i contribuenti. Nelle parole di Bankitalia, oltre a predisporre soluzioni per mitigare i rischi quali PPA, contratti per differenze o regulated asset base, “sarebbe in ogni caso necessario un coinvolgimento diretto dello Stato, con finanziamenti, sussidi, incentivi o regolamenti, o indiretto, attraverso società controllate”.
Viste le incertezze e le controindicazioni elencate e considerando che, come da dossier, il nuovo nucleare non avrebbe significativi impatti sul livello dei prezzi, ci chiediamo perché dovremmo, quando ci sono alternative più economiche, meno problematiche e soprattutto disponibili già qui e ora, come rinnovabili e storage.
Quanto sopra ovviamente vale solo per chi non creda, anziché all’analisi di Bankitalia, al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin.
Mercoledì 18 giugno, alla Camera, rispondendo ad Angelo Bonelli, Pichetto ha infatti affermato che i valori Lcoe stimati dalla Iea in realtà sono probabilmente sovradimensionati perché “associati a tecnologie innovative e in via di sviluppo, pertanto potenzialmente soggetti ad ulteriori revisioni al ribasso che potrebbero derivare dalla produzione in serie dei reattori modulari avanzati”.
Per il ministro, poi, “il nucleare sta diventando più attrattivo per il settore privato grazie anche a nuovi modelli di business, volti a ridurre il rischio per gli investitori e a garantire la stabilità dei ricavi”. Il riferimento è ai sussidi pubblici, come ha spiegato riportando che “stiamo monitorando con attenzione le scelte operate a livello internazionale in relazione ai finanziamenti e ai contributi pubblici destinati al settore”.
In una valutazione complessiva del riavvio del programma, per Pichetto, inoltre “bisogna considerare anche i benefici economici attesi nel breve termine e legati agli investimenti indotti nella filiera e alla creazione di posti di lavoro qualificati”.
Insomma: il nucleare si può fare, con soldi pubblici, per dare soldi a chi lo farà o proverà a farlo. Come in molti dal fronte ambientalista sospettano, se anche alla fine non si farà, sarà comunque un ottimo diversivo per ritardare l’abbandono del gas e a scapito delle fonti rinnovabili.
- Il dossier Bankitalia (pdf)