Quale agrivoltaico vogliamo fare?

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Perché abbinare agricoltura ed energia solare e quali tecnologie utilizzare. Ne abbiamo parlato con Giampaolo Cimatti, responsabile ingegneria e innovazione di Tozzi Green, una delle aziende pioniere dell’agrivoltaico in Italia.

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Un grosso ostacolo alla transizione energetica è che siamo abituati a pensare all’energia come a qualcosa di “minerale”, da estrarre da riserve sotterranee: un’idea radicata dai 200 anni di uso di combustibili fossili.

Oggi questa idea non è più valida. L’energia del futuro arriverà soprattutto da risorse rinnovabili presenti in superficie, come il sole e il vento.

Però resta forte il passato nella mente di certi politici. Basti vedere la bizzarra decisione del governo italiano di emanare un decreto legge per proibire l’uso dei suoli agricoli per la produzione di elettricità solare, come se impiegare il suolo a questo scopo fosse un’eresia.

In realtà agricoltura e il fotovoltaico sono parenti stretti: servono entrambi a convertire l’energia solare in energia utilizzabile dall’uomo: una per il corpo e l’altra per case, industrie e trasporti.

Alla tecnologia FV non serve così tanto suolo da minacciare la produzione di cibo: in Germania, primo paese europeo per estensione di solare, è stato calcolato che il fotovoltaico a terra oggi sta occupando uno spazio minore di quello dei campi da golf, attività sportiva che non ci sembra aver portato i tedeschi alla fame.

Una delle strade che possono aiutare a far cambiare idea su questa necessaria alleanza fra FV e agricoltura si chiama agrivoltaico, una soluzione tecnica che consente di usare allo stesso tempo i campi sia per produrre cibo che elettricità rinnovabile.

Per parlare di questa tecnologia abbiamo sentito Giampaolo Cimatti, responsabile ingegneria e innovazione di Tozzi Green spa, azienda che sviluppa, costruisce e gestisce impianti eolici, fotovoltaici, idroelettrici e a biomasse e che con oltre 177 MW in esercizio si può dire sia stata fra i pionieri dell’agrivoltaico in Italia.

“Si, perché nel 2010 abbiamo realizzato un impianto FV da 34,6 MW abbastanza alto da poterci far pascolare le pecore al di sotto, abbinandolo a un allevamento e a un caseificio: questo tipo di impianti oggi sono considerati agrivoltaici, anche se allora questa definizione neanche esisteva”, ricorda Cimatti.

Il dubbio che può venire parlando di agrivoltaico è che sia una tecnologia che asseconda la narrazione del “non c’è abbastanza spazio per energia solare e agricoltura”, per cui le due cose possono essere solo alternative sugli stessi terreni, mentre in realtà di terreni agricoli abbandonati da usare per impianti FV ce ne sarebbero più che a sufficienza.

Sarebbero circa 4 milioni di ettari in Italia, contro gli appena 30.000 ettari che servirebbe occupare per soddisfare il target di solare previsto per il 2030.

“È verissimo che non c’è un problema di spazio, vista l’enorme estensione dei terreni agricoli inutilizzabili per l’agricoltura. Ma l’agrivoltaico non serve solo ad aumentare la produzione elettrica, serve anche a migliorare quella agricola, garantendo un uso più efficiente e redditizio del suolo per i coltivatori”, dice Cimatti.

Per confermarlo cita una ricerca condotta nel 2023 da Brecht Willockx e colleghi dell’Università di Leuven, che nel 2021 e 2022 in Belgio hanno messo a confronto due tipi di impianti agrivoltaici costruiti su uno stesso campo di barbabietole: uno con moduli bifacciali verticali posti tra i filari, e uno con i pannelli bifacciali posti su dispositivi di tracking monoassiale, che seguono il movimento del sole usando vari tipi di algoritmo di controllo.

Il FV verticale ha il vantaggio di occupare pochissimo spazio e di essere molto solido ed economico; quello con tracking di garantire una produzione di energia molto più elevata, a fronte di maggiori costi di acquisto e manutenzione. Il FV verticale non influisce molto sulle piante coltivate intorno, mentre quello a tracking, usando appositi algoritmi “smart”, può servire anche a dosare la luce sulle coltivazioni, al fine di ridurre l’evaporazione e il caldo estremo sulla vegetazione.

Per sintetizzare i risultati i ricercatori hanno usato l’indice LER, in genere impiegato per valutare il rendimento di campi in cui coesistono più colture. Un LER minore di 1 indica che le due colture si danneggiano a vicenda, dando un raccolto peggiore che se fossero separate; se invece il LER è maggiore di 1 vuol dire che c’è una sinergia positiva e le due colture finiscono per sfruttare meglio il suolo di quando sono separate.

“In questo caso – spiega il rappresentante della Tozzi Green – la seconda ‘coltura’ è quella dell’elettricità solare. Ebbene, nel 2021, anno piovoso, il LER del FV verticale è stato di 0,95 e quello del FV con tracking di 1,15; nel 2022, anno siccitoso, il LER del FV verticale è salito a 1,21 e quello del FV con tracking addirittura a 1,47. Questo vuol dire che non solo agricoltura e agrivoltaico sono compatibili, ma che il FV, soprattutto in caso di siccità, aiuta le piante a crescere meglio”.

Ma com’è possibile, visto che competono per la stessa risorsa, cioè la luce?

Cimatti risponde che “il FV, opportunamente spaziato, garantisce abbastanza luce per entrambi e offre altri vantaggi: sotto ai pannelli il suolo resta più fresco e umido, fornendo una riserva di acqua alle colture circostanti; la minore luce al di sotto dei pannelli può essere buona per colture che amano l’ombra, come i frutti di bosco, e poi i pannelli riparano le piante dalla grandine e dalle gelate e, in  tempi di cambiamento climatico, ridurre un po’ illuminazione e calore in certi periodi dell’anno può aiutare la crescita delle piante. Non è un caso che una delle prime sperimentazioni di agrivoltaico fu fatta in Francia su vigneti dei Pirenei che soffrivano per troppo caldo e siccità”.

Insomma, sposare produzione solare e agricola è vantaggioso per entrambi, ma quale sistema di agrivoltaico sarebbe bene adottare per massimizzare i due aspetti?

“Il tipo più semplice consiste in file di pannelli appoggiati a terra fra i filari, in modo che non occupino più del 70% del terreno. Questo però non aiuta le coltivazioni e riduce troppo la produzione solare, risultando poco redditizio. Il FV verticale con i pannelli orientati est-ovest occupa poco spazio e consente di produrre molta elettricità in ore mattutine e serali, spuntando prezzi più alti”, dice l’ingegnere della Tozzi Green.

Aggiunge, inoltre che il fotovoltaico verticale sembra essere più adatto per le alte latitudini, dove il sole resta basso tutto l’anno, mentre da noi perdere il picco delle ore intorno a mezzogiorno, probabilmente penalizza troppo la produzione nelle installazioni italiane.

Il sistema migliore, come conferma la ricerca belga, sembrerebbe quindi la coabitazione fra piante e sistemi lineari di FV con inseguimento monoassiale.

“Sarebbe l’ideale, perché in questo modo l’aumento del 30-40% della produzione elettrica, quasi costante durante tutto il giorno, compensa bene sia l’avere meno superficie produttiva che maggiori costi di manutenzione rispetto al normale FV a terra. Inoltre, poter muovere i pannelli, permette di usarli quando serve, anche per dosare protezione sulle colture”.

Racconta Cimatti: “Stiamo infatti per realizzare in Puglia un impianto agrivoltaico da 99 MW di questo tipo, con colture alte, come frutta e olivi, che richiedono molto sole fra un tracking e l’altro, mentre sotto ai pannelli si coltiveranno piante basse, come gli asparagi, che crescono bene anche con meno sole. Insomma, un sistema che produrrà contemporaneamente elettricità e, sull’89% del terreno più tipi di piante alla volta: meglio di così non credo si possa fare per tutelare transizione energetica e produzione alimentare”.

Però c’è anche un quarto tipo di agrivoltaico, quello “avanzato”: sistemi di tracking su due assi, con pannelli distanziati fra loro e posti a quasi tre metri di altezza, così che tutta la superficie del campo sia coltivabile da grandi macchine.

“Questi sistemi sono certo interessanti, ma credo che siano meno vantaggiosi rispetto ad una soluzione con tracking tradizionale, perché il loro costo sarà molto più elevato rispetto a quello del FV a terra e la produttività energetica, a causa della necessità di privilegiare la produzione agricola sottostante, sarà più bassa”.

“Va evidenziato – aggiunge l’ingegnere – che pannelli posti così in alto e su strutture leggere e sottili per non intralciare i trattori, presentano il rischio di essere vulnerabili ai sempre più frequenti eventi climatici estremi. Credo che questi impianti saranno realizzabili in maniera diffusa solo se supportati da una forte incentivazione pubblica”.

C’è il forte rischio che il futuro regolamento del decreto agricoltura, che oggi vieta l’uso del terreno agricolo per la produzione FV, tranne che per l’agrivoltaico, alla fine stabilisca che sia proprio quello “avanzato” l’unico ammissibile.

“Aspettiamo che si precisino meglio le norme. Ma parliamoci chiaro: l’agrivoltaico da solo non potrà mai produrre tutta l’elettricità solare a prezzi competitivi che richiederà la transizione energetica. Quindi escludere a priori il FV a terra, persino su terreni agricoli non coltivabili, sarebbe una follia”.

“Se poi l’agrivoltaico venisse limitato solo alla sua versione cosiddetta ‘avanzata’, cioè più costosa, delicata e complessa, allora vorrebbe dire che abbiamo proprio deciso di non rispettare gli impegni europei al 2030″, conclude Cimatti.

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