Perché il nucleare non è una soluzione per “ripulire” il mix elettrico

In una recente analisi Mark Z. Jacobson evidenzia tutti i rischi e gli svantaggi dell’atomo rispetto alle fonti rinnovabili.

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Il nucleare non è una soluzione per rendere più “pulito” il mix energetico, perché anche i reattori atomici sono responsabili di una fetta considerevole di emissioni inquinanti, una volta che si è tenuto conto di una serie di fattori.

Va dritto al punto Mark Z. Jacobson, professore alla Stanford University e tra i massimi sostenitori della necessità di puntare esclusivamente sulle fonti rinnovabili per combattere in modo efficace i cambiamenti climatici e limitare il surriscaldamento globale sotto 2 gradi centigradi, come previsto dagli accordi di Parigi.

Jacobson torna a discutere di nucleare in un recente documento, Evaluation of Nuclear Power as a Proposed Solution to Global Warming, Air Pollution, and Energy Security (allegato in basso), che fa parte di una pubblicazione più ampia in corso di preparazione.

Spesso, infatti, ad esempio in molte pubblicazioni della IEA, l’atomo è considerato un ingrediente indispensabile per de-carbonizzare la produzione di elettricità a livello mondiale, al pari di altre tecnologie controverse come il CCS (Carbon Capture and Storage) applicato alle centrali a carbone e agli impianti alimentati con le bioenergie.

Lasciando qui da parte le valutazioni sui rischi più generali che riguardano la sicurezza dei reattori e la gestione dei rifiuti radioattivi, ci concentriamo su due aspetti dell’analisi di Jacobson: le emissioni di gas-serra e la competitività delle diverse fonti energetiche.

Non c’è qualcosa che si avvicini a un impianto nucleare a zero o quasi-zero emissioni di CO2, avverte l’autore del documento.

A supportare una simile affermazione, Jacobson cita i dati sulle emissioni di CO2 associate ai ritardi per la costruzione dei nuovi impianti.

Il ragionamento, in sintesi, è questo: poiché il nucleare ha tempi di realizzazione molto lunghi, nell’ordine di 10-19 anni in media tra la fase di progetto iniziale e quella dell’entrata in esercizio, contro 2-5 anni per un parco eolico o solare utility-scale di grandi dimensioni, è necessario calcolare tutta l’anidride carbonica rilasciata nell’ambiente dalle centrali che nel frattempo continuano a produrre energia aspettando l’arrivo dei nuovi reattori.

Jacobson parla di “opportunity cost emissions due to delays”, cioè del costo opportunità causato dalla scelta di puntare sul nucleare piuttosto che su una fonte alternativa come l’eolico o il solare.

In altre parole: se investo in una fonte rinnovabile, posso far funzionare i nuovi impianti in molto meno tempo con una rapida riduzione delle emissioni.

Al contrario, se investo nel nucleare, devo aspettare molti anni per completare il progetto e quindi la de-carbonizzazione del mix elettrico della rete avviene molto più lentamente.

In tema di ritardi, nel testo ci sono diversi esempi recenti di progetti nucleari posticipati, tra cui Olkiluoto in Finalndia e Hinkley Point in Gran Bretagna (vedi anche qui).

In sostanza, considerando anche le emissioni inquinanti sul ciclo di vita delle diverse tecnologie (per la costruzione, il funzionamento e lo smantellamento finale degli impianti), Jacobson ritiene che il contributo complessivo del nucleare sia pari a 78-178 grammi di CO2 equivalente/kWh contro valori ben più bassi per le rinnovabili, ad esempio il solare utility-scale arriva al massimo a 26-27 grammi di CO2/kWh mentre l’eolico a terra si ferma a 8-9.

Infine, per quanto riguarda i costi, Jacobson cita i dati Lazard sui valori medi LCOE (Levelized Cost of Energy) che per il 2018 assegnavano una media di 151 dollari/MWh al nucleare, più del triplo rispetto all’eolico e al fotovoltaico; tra l’altro, questo LCOE sul nucleare secondo Jacobson è sottostimato perché esclude i costi sanitari-ambientali ed economici associati ai disastri come quello di Fukushima in Giappone nel 2011, oltre ai costi per lo stoccaggio delle scorie.

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