Le imprese che sono state in prima fila nell’imporre che si lavorasse, costi quel che costi, durante il lockdown rischiano di essere le prime a far ricorso alla cassa integrazione e a mandare a casa gli operai che hanno costretto a lavorare nel periodo di maggior pericolo.
Per la produzione di armi forse il problema non si pone, perché i committenti sono lo Stato, che continuerà a indebitarsi per pagarle, e i governi di altri Paesi, che fino a che sgorgherà l’ultima goccia di petrolio ne useranno i proventi per armarsi.
Ma chi comprerà le auto del 2020 e del 2021, quando gran parte di quelle prodotte nel 2019 sono ancora nei piazzali a prezzi scontati in attesa di un compratore?
E chi riuscirà a risollevare in pochi mesi o pochi anni un mercato crollato dell’83%? Certo, con la fine del lockdown ci sarà forse una corsa a riprendere in mano il volante: è quello che invita a fare il sindaco di Milano, perché sui mezzi pubblici si viaggerà distanziati e perché non si vuole potenziare il servizio né organizzare lo scaglionamento degli orari di fabbriche e scuole.
Tra riprendere a guidare l’auto vecchia e comprarne una nuova c’è un salto, anche perché tutti aspettano l’auto elettrica che manderebbe in rottame quelle attuali. Con il mercato dell’auto entrerà in crisi gran parte dell’industria meccanica, del petrolio e della siderurgia, imponendo, tra l’altro, ai lavoratori e ai cittadini (liberi e pensanti) di Taranto di trovare quello che in dieci e più anni Governo e sindacati non hanno avuto coraggio o capacità di cercare: un’alternativa occupazionale a un’impresa comprata solo per chiuderla e accaparrarsene il mercato.
E la moda? Altro pilastro del cosiddetto “made in Italy”, opera per lo più di lavoratori di altri Paesi. Molti ci penseranno due volte prima di rinnovare il proprio guardaroba: se n’è accorto anche Giorgio Armani. E senza una “ricaduta” popolare, l’alta moda delle sfilate rischia la fine di tutte le altre forme di turismo del lusso, di affari e dei “grandi eventi”: fiere, expò, grandi mostre, olimpiadi. Il Giappone ne ha già avuto un assaggio.
De profundis anche per l’aeronautica civile, il sistema di trasporto più inquinante, che oggi fa i conti con il distanziamento, ma domani dovrà farli con la crisi climatica. E con esso, anche per le vacanze esotiche: l’idea di ritrovarsi in mezzo a un contagio, un incendio, un uragano, una guerra, una rivolta di popolo, impossibilitati a tornare a casa, farà scegliere mete più a portata di mano (e non è un male).
Anche per le crociere, veri focolai di contagio (e per la cantieristica italiana, votata a questo mercato). Reggerà forse il turismo religioso: c’è bisogno di miracoli.
I problemi maggiori riguardano agricoltura e alimentazione: hanno poco a che fare con il coronavirus, ma molto con la crisi idrica, i cambiamenti climatici e la mancanza di manodopera schiava (quella fornita dagli immigrati “clandestini”).
Si rischia una crisi alimentare (e sarà sempre più difficile importare cibo dall’estero) che farà capire a tutti che times are a-changing.
Per correre ai ripari non serve massacrare lavoratori e comunità per riattivare le vecchie produzioni. Serve mettere in cantiere quelle nuove: impianti per le rinnovabili e l’efficienza energetica, ristrutturazione del già costruito, gestione accurata di risorse e rifiuti, mezzi di trasporto collettivi o condivisi, agricoltura biologica e di prossimità, riassetto idrogeologico dei territori e tutto ciò che è legato alla prevenzione: ce n’è abbastanza per un esercito di disoccupati.
L’articolo è stato pubblicato sulla rivista bimestrale QualEnergia (n.3/2020) con il titolo “Puntare sul nuovo”