L’era del petrolio è finita e non si tornerà indietro, parola dell’Economist

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Opinione pubblica sempre più preoccupata dai cambiamenti climatici ed aziende dalla competitività; il denaro si sta spostando verso investimenti green. Opportunità e rischi di un processo globale ormai irreversibile, secondo lo special report della rivista britannica.

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“Oggi i combustibili fossili rappresentano la fonte dell’85% dell’energia consumata. Ma questo sistema è sporco. L’energia causa i due terzi delle emissioni di gas serra; l’inquinamento provocato dai combustibili fossili uccide oltre 4 milioni di persone all’anno, soprattutto nelle megalopoli del mondo emergente. Il petrolio ha anche creato instabilità politica e tensioni mondiali”.

A dire queste cose non è Greenpeace, ma un editoriale dell’Economist dal titolo “Is it the end of the oil age?” che fa da apertura ad un rapporto speciale nel numero uscito la scorsa settimana che in copertina titola: “21st century power: How clean energy will remake geopolitics”.

Per il prestigioso settimanale britannico, mai stato tenero con l’economia verde e le rinnovabili e sempre molto attento al settore delle fossili, è un vero e proprio ribaltamento di approccio.

Guarda con attenzione agli investitori che si trovano di fronte un mondo cambiato soprattutto dalla pandemia. E si avverte: “non si tornerà indietro”.

“Non si tratta – scrivono – di un semplice shock petrolifero; è qualcosa di diverso”. L’opinione pubblica e le aziende sono sempre più preoccupate dai cambiamenti climatici. Tutti sanno che arriveranno normative più stringenti e una fiscalità più orientata alle soluzioni green (carbon tax, ad esempio). Investimenti verdi oggi favoriti anche da tassi di interesse tendenti allo zero.

Le aziende, soprattutto quelli più grandi e tradizionali, rischiano di perdere credibilità e competitività se non sapranno cavalcare questa nuova onda che punta soprattutto all’elettrificazione, alle fonti rinnovabili, alla decarbonizzazione dell’economia.

Il denaro si sta spostando dalle fossili all’energia pulita, sottolinea l’Economist. Restare indietro in questo epocale cambio tecnologico, con tutte le sue opportunità (oltre che criticità) è un rischio per chi fa impresa: investimenti “incagliati” (crediti inesigibili) e definitivo sorpasso da parte dei concorrenti, specialmente di nuovi attori, giovani, dinamici, e spesso asiatici.

Una vulnerabilità, quella del mondo energetico tradizionale, che è poi stigmatizzata, spiega l’articolo, dall’espulsione di ExxonMobil dal Dow Jones Industrial Average dopo oltre 90 anni e dalla probabile crisi socio-economica di paesi che hanno sempre puntato tutto sul petrolio, come l’Arabia Saudita, che fanno ancora troppa fatica a riformarsi. Insomma, un sistema in evoluzione che richiederebbe lungimiranza e competenze.

Per la testata della grande finanza “il sistema energetico del 21° secolo promette di essere migliore dell’era del petrolio: migliore per la salute umana, più politicamente stabile e meno economicamente volatile”.

Tuttavia, non vengono affatto edulcorati i notevoli rischi insiti in questo processo che, se portato avanti in modo disordinato potrebbe favorire, anch’esso, l’instabilità politica ed economica nei cosiddetti PetroStati, ma anche concentrare sempre di più gran parte della filiera tecnologica green e innovativa in Cina, con disastrose conseguenze per Europa e Usa (sebbene abbiano grandissime potenzialità), ma anche per i paesi più poveri.

Ma – e questo è un altro punto che colpisce dell’analisi dell’Economist – sarebbe ancora più pericoloso che questo processo vada troppo lento: cambiamenti climatici e crisi socio-economiche potrebbero esplodere e causare impatti ben più duri.

In conclusione, per l’Economist la transizione ecologica ed energetica causerà sicuramente nuove turbolenze geopolitiche, ma s’ha da fare! In molti si stanno risvegliando, e un ritorno al vecchio mondo è quanto meno improbabile.

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