Il gas di origine fossile non è un ponte ma un muro per la transizione energetica verso le fonti rinnovabili, tanto che il suo impatto ambientale può essere analogo a quello del “nemico pubblico” numero uno, il carbone.
Un altro studio recente, The New Gas Boom (allegato in basso) di Global Energy Monitor, evidenzia i rischi dei massicci investimenti previsti su scala globale per potenziare la produzione e l’utilizzo di carburanti tradizionali, concentrando la sua analisi sulla futura espansione delle infrastrutture dedicate al gas naturale liquefatto (LNG).
Il documento stima una somma di denaro enorme: milletrecento miliardi di dollari pronti da investire in tutto il mondo per realizzare oltre 200 terminali LNG, di cui una fetta preponderante negli Stati Uniti e in Canada, con rispettivamente 507-410 miliardi di dollari.
Si punta, in sostanza, a creare una rete internazionale di scambi commerciali di questo combustibile: gli Stati Uniti, in particolare, intendono ampliare notevolmente la loro capacità di esportazione di LNG verso l’Europa e l’Asia, contando sulle forniture nazionali di gas da scisto (shale gas) che hanno visto un boom negli ultimi anni nonostante le critiche sulle conseguenze devastanti del fracking per l’ambiente (la “fratturazione” delle rocce scistose).
La Casa Bianca, qualche settimana fa, a proposito del gas naturale liquefatto ha parlato addirittura di “molecole di libertà” riferendosi alla possibilità di aumentare la sicurezza energetica dei paesi che lo utilizzano…
Perché è sbagliato investire in questa direzione?
Diversi sono i motivi citati da Global Energy Monitor.
C’è il lato economico, ma non solo quello. Dal punto di vista finanziario, si legge nello studio, considerando la crescente competitività delle fonti rinnovabili che in molte aree del mondo sono in grado di produrre energia a costi inferiori di gas e carbone, l’ampliamento delle infrastrutture LNG pone molti dubbi sulla possibilità di generare profitti futuri.
Il rischio è che i nuovi terminali diventeranno troppi e saranno sottoutilizzati, in uno scenario di costante aumento delle energie pulite (eolico, solare e così via) e di restrizioni ambientali sempre più severe, con l’eventuale applicazione di sistemi di carbon pricing per tassare le emissioni di gas-serra.
Si parla, in sostanza, di stranded asset: infrastrutture inutili o poco remunerative.
E poi c’è il discorso sui cambiamenti climatici.
Come evidenzia il documento, l’impatto ambientale complessivo di tutti i nuovi progetti LNG (856 milioni di tonnellate di capacità annua di esportazione), su un orizzonte di 100 anni, è sostanzialmente lo stesso di tutte le centrali a carbone pianificate nel mondo (574 GW di nuova potenza installata).
Il confronto è stato fatto in termini di CO2 equivalente, valutando l’impatto del gas vs il carbone (Global Warming Footprint) nell’intero ciclo di vita di entrambe le risorse fossili: insomma tutte le attività per estrarre il gas (o il carbone), produrlo e trasportarlo, fino al suo utilizzo finale.
Il problema per il gas naturale liquefatto, precisa infine lo studio, è l’elevata percentuale di emissioni dovute a perdite, cioè le emissioni di metano, che peraltro ha un potenziale di surriscaldamento superiore alla CO2, nelle diverse fasi di estrazione, produzione e trasporto del combustibile, soprattutto nei giacimenti di shale gas e nei processi di liquefazione/gasificazione.
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