L’articolo è stato pubblicato sul n.1/2020 della rivista bimestrale QualEnergia
Il XX Secolo è stato quello dell’automobile: il fordismo ha modellato ovunque l’organizzazione del lavoro, gli stili di vita, gli assetti urbani e anche l’immaginario.
Ma la crisi climatica ci farà cambiare strada. L’auto, come mezzo di trasporto privato, prima per pochi e poi “per tutti”, è stata resa possibile da un’innovazione tecnologica, il motore a combustione interna.
Per usarla bisognava possederla: di qui la motorizzazione di massa, l’inquinamento e la congestione ma anche un grande consumo (spreco) di materiali, di energia (per fabbricarla e per usarla), di spazio (6-8 metri quadrati per posteggiare, 30 per muoversi 2-300 per correre), di tempo (nel traffico) e di denaro: un sistema insostenibile.
Oggi altre innovazioni – informatica e telecomunicazioni, Ict – rendono possibile usare un’auto, o molte auto, senza possederle, ma condividendole con chi di volta in volta ne ha bisogno: car sharing, car pooling, trasporto a domanda, city logistic (consegna merci).
Invece di restare ferme in media 22 ore su 24, ingombrando strade e parcheggi, saranno quasi sempre in moto, ma saranno molte di meno.
Se l’Ict consente questo passaggio, la crisi climatica e ambientale lo rende ineludibile. Avere un’auto propria non può più essere più un diritto per nessuno, come nessuno ha diritto di comprarsi un carrarmato. Non c’è posto sul nostro Pianeta per i tassi di motorizzazione dell’Europa: un veicolo ogni due abitanti.
Al 2050 le auto su strada sarebbero 5 miliardi: troppe, non importa se convenzionali, elettriche o a guida autonoma o forse si pensa che “in macchina” continueremo a viaggiare solo noi, mentre gli altri popoli della Terra devono restare per sempre a piedi? Potrebbe anche succedere il contrario…
Niente come l’auto fa capire quanto la transizione energetica sia destinata a stravolgere idee e abitudini consolidate, ma anche assetti produttivi e di potere. Si produrranno molte meno auto, usandole molto di più.
Che ne sarà di chi lavora nel settore?
Il problema non può essere affrontato solo in fabbrica o in una singola industria e nemmeno riorganizzando solo la mobilità. Ci saranno molti meno occupati nell’industria dell’auto (e in altri settori); ma ci sarà più occupazione in altre attività (rinnovabili, efficienza energetica, ristrutturazioni edili, riassetto dei territori, cura delle persone, agricoltura).
Passare dall’una all’altra sarà difficile per tutti, penoso per molti e impossibile per altri; anche se con la transizione si potrebbe ridurre molto l’orario di lavoro e riorganizzarlo con più autonomia nella scelta dell’attività e nel modo di lavorare.
A chi affidare la transizione?
Si può affidare la transizione al mercato? No, il mercato non guarda lontano e non vede chi resta indietro. Ai Governi? No, processi del genere non si possono governare solo “dall’alto”. A imprese abituate a sfruttare al massimo chi c’è e a sbarazzarsi alla svelta di chi non serve più? Meno che mai.
Occorre innanzitutto garantire un reddito a chi temporaneamente o per sempre, resta senza lavoro. I lavoratori devono poter contare come parti in causa. Non possono farlo da soli, né solo fabbrica per fabbrica, ma solo nel loro territorio: analizzarlo, discutere, individuarne le potenzialità, tradurle in progetti. Non sono le risorse finanziarie a mancare; manca la progettualità.
A svilupparla – senza indugio: «la nostra casa è in fiamme!». – possono concorrere conferenze che coinvolgano, se e quando si renderanno disponibili, maestranze, management, associazioni, governi locali, Università: la governance in potenza di una nuova forma di impresa.
Oggi per prospettare un’alternativa praticabile; domani per realizzarla.
L’articolo è stato pubblicato sul n.1/2020 della rivista bimestrale QualEnergia, con il titolo “Cambia la strada”