I cambiamenti climatici e il nodo della finanza globale

Anche se con deplorevole ritardo l’accentuazione della valutazione dei rischi finanziari legati al cambiamento climatico sta emergendo nel dibattito del settore, banche centrali in testa. Ma sono ancora molte le resistenze.

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Articolo pubblicato sul n.3/2019 della rivista bimestrale QualEnergia

Senza voler cadere nell’aporia logica del “Post hoc, ergo propter hoc” (dopo di questo, a causa di questo), la cui denuncia è tanto cara agli affabulatori del Diritto, vale la pena rilevare che l’intervento del Governatore della Banca d’Italia: “Sviluppo sostenibile e rischi climatici: il ruolo delle banche centrali” è avvenuto a fine maggio, cioè un paio di mesi dopo che i giovani di tutto il mondo avevano proclamato il “global strike for future” sotto l’occhio severo ma benedicente di Greta Thunberg.

Nel suo intervento svolto il 21 maggio scorso al “Festival dello Sviluppo Sostenibile”, Ignazio Visco lancia vari moniti sui rischi finanziari legati al cambiamento climatico e, soprattutto, spezza decisamente una lancia a favore dell’adozione da parte delle imprese di strategie “Environment, Social, Governance” (Esg), una delle varie formulazione di quella “triple bottom line” che John Elkington propose 25 anni fa affinché i bilanci delle imprese fossero improntati non solo a tenere conto dei ricavi, Profit, ma anche di altre due P: People e Planet, cioè delle ricadute sociali e ambientali delle loro attività (Mattioli & Scalia, La tripla Elica, QE 2, 2017).

Certo, nessuno s’immagina Visco a danzare un valzer con Greta e, a dir la verità, neanche a mostrare l’autorevolezza politica e lo spirito innovativo che caratterizzò Paolo Baffi, un Governatore della Banca d’Italia con la caratura di vero statista che ebbe il coraggio di schierarsi pubblicamente contro il nucleare in occasione del referendum del 1987.

Di sicuro, la cultura dell’uomo lo induce a sottolineare gli effetti negativi sul sistema economico e finanziario, ove una transizione low carbon con lo “impiego di fonti alternative, al momento più costose” comportasse “un brusco calo” nel ricorso alle fonti fossili.

Visco non si è ancora accorto che il ritmo di galoppo delle fonti rinnovabili in tutto il mondo è ormai spinto dalla loro convenienza, però annuncia, seppure un quarto di secolo dopo le tre P, che anche l’Istituto che governa «ha deciso di adottare una strategia d’investimento che integra considerazioni Esg nella gestione del proprio portafogli» e che «la nuova metodologia comporta un significativo miglioramento dell’impatto ambientale dei nostri investimenti finanziari: le aziende incluse nel nuovo portafoglio si caratterizzano per un più basso grado di emissioni di gas serra (con una riduzione del 23%) e minori consumi di energia e di acqua (del 30 e 17%, rispettivamente)».

La nuova metodologia integra la precedente con due tipologie di valutazione:

  • escludere dagli investimenti i titoli emessi da società che operano in modo non conforme al Global Compact delle Nazioni Unite, che dal 2004 detta i principi che le imprese devono seguire rispetto a diritti umani, lavoro, sostenibilità ambientale e misure anticorruzione;
  • privilegiare gli investimenti nei titoli delle società che godono delle migliori valutazioni sotto il profilo Esg. Criteri resi necessari anche da un’indagine condotta nel 2018 tra i principali operatori finanziari italiani che ha evidenziato che “la consapevolezza dei rischi finanziari derivanti dai cambiamenti climatici resta limitata.”

E non c’è da stupirsi, visto che il Network for Greening the Financial System (Ngfs) è stato costituito solo nel dicembre 2017 su iniziativa della Banque de France tra le banche centrali e i “supervisori” di otto Paesi: Francia, Cina, Paesi Bassi, Germania, Messico, Singapore, Svezia e Regno Unito. Esattamente due anni dopo l’Accordo di Parigi.

Ritorna in mente il ritornello della stalla e dei buoi; e, se non fosse un dramma, ci verrebbe quasi da inorgoglirci perché, rispetto a una Finanza a dire poco tardigrada,

l’Accademia – quella delle Scienze dei Paesi del G8, più Cina, India e Brasile – chiese già nel 2005 al G8 di Gleneagles una “prompt action” di tutti i Paesi del mondo contro il global warming.

La Finanza mondiale e il mondo economico che le ruota attorno se ne sono invece sentiti esentati, a quanto pare, per molto tempo.

Ngfs ha prodotto il suo primo Complessive Report lo scorso aprile, a tre anni dalla ratifica dell’Accordo di Parigi: “A Call for Action. Climate change as a source of financial risk”. Nell’introduzione al Rapporto il presidente del Ngfs, Frank Elderson, dopo aver citato alcuni dati, drammatici ma peraltro sottostimati, correlati alla crisi ambientale, si rallegra della crescita a 34 membri e cinque Osservatori dell’organismo che presiede, tra i quali l’Italia; rivendica come pieno mandato delle banche centrali il garantire la “resilienza” del sistema finanziario rispetto ai rischi del cambiamento climatico.

E annuncia la pubblicazione di un manuale per la gestione del rischio climatico e ambientale, di linee-guida basate su scenari di rischio e di una collezione di buone pratiche al fine di incorporare criteri di sostenibilità nella gestione del portafoglio delle banche centrali. Quel che, insomma, Visco ha già messo in cantiere.

In un video pubblicato su Youtube, Elderson dichiara il «carattere analiticamente difficile e di urgenza senza precedenti che il rischio finanziario ha assunto a causa del cambiamento climatico e auspica che le raccomandazioni del Rapporto rinforzino in tutti i Paesi e in tutti i Continenti, un sistema finanziario ‘più verde’».

Auspica poi che banche centrali, supervisori e istituti finanziari continuino ad “alzare l’asticella” per affrontare quel rischio e rendere “verde” il sistema finanziario «fin tanto che temperature e livelli dei mari continueranno a crescere».

Che cosa dicono quelle raccomandazioni?

Sono tutte riferite al rischio climatico, le prime quattro rivolte alle banche centrali, ma elenchiamole tutt’e sei:

  1. Integrare i rischi legati al clima nel monitoraggio della stabilità finanziaria e nelle procedure di “micro-supervisione”;
  2. Integrare fattori di sostenibilità nella gestione del proprio portafogli;
  3. Colmare le esistenti lacune di dati (sul rischio climatico);
  4. Costruire consapevolezza e capacità intellettuale, incoraggiare assistenza tecnica e condivisione di conoscenza;
  5. Conseguire una divulgazione robusta e internazionalmente coerente dei temi ambientali e climatici;
  6. Sostenere lo sviluppo di un metodo di classificazione delle attività economiche.

Quest’ultimo punto si riferisce sia alle attività che contribuiscono a una transizione verso un’economia verde e low carbon sia a quelle più esposte ai rischi climatici e ambientali.

“In una certa misura le raccomandazioni 1.– 4. richiedono la realizzazione di 5. – 6. ma ciò non impedisce alle banche centrali e ai supervisori di agire subito”, osserva il Rapporto a commento delle raccomandazioni.

E l’Unione Europea? Assume come riferimento gli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e dell’Accordo di Parigi. Quest’ultimo richiede l’impegno di “allineare i flussi finanziari con un percorso verso uno sviluppo low-carbon e resiliente rispetto al clima”.

Per cogliere gli obiettivi Ue 2030, incluso il taglio del 40% delle emissioni gas-serra, ci vogliono 180 miliardi di euro all’anno; poiché una tale sfida è al di là delle capacità del solo settore pubblico è stato costituito un Fondo Europeo per Investimenti Strategici per attivare i capitali necessari.

Infatti, alla Finanza viene riconosciuto un ruolo chiave nel riorientare gli investimenti verso tecnologie e attività sostenibili, finanziare una crescita sostenibile di lungo termine e contribuire alla creazione di un’economia circolare e low-carbon.

Per incoraggiare un approccio globale alla finanza sostenibile e discutere come canalizzare coerentemente capitali privati in progetti sostenibili la Commissione Ue ha organizzato il 21 marzo scorso una conferenza di “secondo livello”: “High-level Conference: a global approach to sustainable finance”.

Ma già a luglio 2018 aveva istituito un suo gruppo tecnico di esperti sulla finanza sostenibile (Teg), i cui lavori potranno essere estesi fino a tutto il 2019, per sviluppare un sistema unificato di classificazione delle attività economiche sostenibili, uno standard per i green bond della Ue, metodologie per indici di sviluppo a basso tenore di carbonio e parametri per la divulgazione dei temi relativi al clima.

Il Teg è composto da 35 esperti presi dalla società civile, dall’accademia e dal settore finanziario, i quali, insieme ad altri componenti e osservatori espressi da organismi pubblici della Ue o internazionali, si confrontano sia attraverso riunioni plenarie che in incontri di gruppo per ogni filone di lavoro. La Commissione pianifica inoltre sessioni di sensibilizzazione, che sono aggiornate regolarmente e rese pubbliche nei “piani di sensibilizzazione

Il Teg dovrebbe assistere la Commissione Ue nella realizzazione del suo Piano d’azione sulla finanza sostenibile, varato nel marzo 2018 sulla base delle indicazioni di un altro gruppo d’esperti di alto livello (Hleg) che era stato istituito due anni prima. Il piano individua 5 azioni chiave, in particolare l’ultima, last but not least, prevede: “Introdurre un ‘fattore di sostegno ecologico’ nelle norme prudenziali della UE per le banche e le compagnie di assicurazione. Ciò significa incorporare i rischi climatici nelle politiche di gestione del rischio delle banche e sostenere le istituzioni finanziarie che contribuiscono a finanziare progetti sostenibili.”

Un criterio che la Banca d’Italia dichiara, per bocca del suo Governatore, di avere adottato.

L’introduzione del “green supporting factor”, appena richiamato, ha riscontrato la contrarietà delle autorità di vigilanza di alcuni Paesi europei, che temono un annacquamento dell’equazione rischio-capitale. Infatti, un trattamento prudenziale ad hoc abbassa i requisiti per prestiti o investimenti sostenibili rispetto a quelli fissati per gli altri, incentivando l’orientamento del mercato verso i primi; ma il Parlamento europeo si è mostrato d’accordo con la Commissione.

E, a proposito di Parlamento europeo, assai incisivo è stato il pressing costantemente esercitato da varie Ong perché la finanza sostenibile Ue non divenisse un “greenwashing” che ignorasse gli aspetti sociali; le Ong hanno documentato come sia un luogo anche “troppo comune” che denari europei – e di investitori basati nella Ue – giochino un ruolo fondamentale nel finanziare progetti legati ad abusi contro i diritti umani, land grabbing e distruzioni ambientali su larga scala.

Ed è un piacevole stupore prendere atto che un’azione parallela, rivolta non solo al Parlamento europeo, ma anche al Congresso degli Stati Uniti, all’Ocse e al Gruppo di lavoro Onu, sia stata condotta da un gruppo internazionale di investitori che gestiscono complessivamente beni del valore di 1.900 miliardi di dollari.

In “Making Finance Work for People and Planet” gli investitori firmatari della dichiarazione denunciano le sfide cui fare fronte: carestie alimentari, scarsità d’acqua, milioni di rifugiati dovuti al cambiamento climatico, 40 milioni di persone che vivono in una moderna schiavitù e la metà del mondo che non ha accesso all’assistenza sanitaria primaria.

E richiedono una maggiore “due diligence” degli investitori per affrontare i rischi ambientali, sociali e di governance (Esg), inclusi i rischi per i diritti umani, durante l’intero ciclo di vita degli investimenti. Perché è attraverso un’applicazione di una più robusta “due diligence” – l’analisi dello stato economico e patrimoniale di una società per valutarne stabilità o criticità e per conoscere eventuali elementi di rischio soprattutto in relazione ad operazioni straordinarie – che gli investitori possono acquisire la capacità di far fronte a quelle sfide nella prospettiva degli obiettivi dell’Agenda 2030. Da qui la pressante richiesta ai Governi di sostenere gli investitori attraverso un’adeguata normativa del sistema finanziario.

Abbiamo espresso molte volte, su queste pagine, lo sdegno per una finanza mondiale irresponsabile e “laboricida” – com’è esperienza di milioni di disoccupati e di risparmiatori truffati.

Abbiamo anche individuato alcuni protagonisti della catastrofe economica partita dagli Stati Uniti nel 2008, uno per tutti il “Washington Consensus”, ossia, nella sua accezione corrente, l’insieme delle indicazioni e delle politiche economiche di stampo neoliberista incoraggiate a partire dalla fine degli anni ’80 dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e dal Tesoro del Stati Uniti (tutti con sede a Washington): deregulation delle norme che impediscono l’entrata nel mercato o che limitano la competitività, liberalizzazione del commercio e degli investimenti dall’estero, e quindi degli stessi capitali, riguardo al mercato; detassazione per le imprese e austerity sul piano interno.

È anche vero che la Finanza mondiale non è un “monoblocco”; le sue diverse aree mostrano preoccupanti similitudini predatorie ma i suoi comportamenti non possono essere sussunti in un unico “grande vecchio” dei poteri forti.

Pesano prospettive finanziarie, indicazioni politiche e anche culture diverse, come si sta incaricando di mostrare la vicenda della “guerra” per i dazi tra USA e Cina.

Anche se con deplorevole ritardo l’iniziativa Ngfs a livello mondiale, il dibattito nel Parlamento europeo e il piano d’azione della Commissione Ue per la finanza sostenibile segnalano che qualche cosa sta significativamente cambiando, in particolare con l’accentuazione della valutazione dei rischi finanziari legati al cambiamento climatico.

Non è certo un mondo di educande, e non ci sono da attendere sublimi vocazioni ecologiste, però quello dei rischi economici in rapporto alla crisi ambientale, soprattutto i cambiamenti climatici, è un linguaggio concreto che fu ben capito in sede politica ai tempi del Rapporto Stern (2006), e fu efficace sul terreno delle decisioni conseguenti (i tre 20% al 2020).

Si può sperare in un analogo ravvedimento operoso in una parte significativa del mondo della finanza e delle imprese, come alcune delle cose dette sembrano autorizzare. E restano gagliardamente confermati ruolo e capacità che gli stakeholder dell’ambiente – giovanissimi, giovani e meno giovani – riescono ad avere anche rispetto al “resiliente” mondo della finanza e delle regole che deve imparare a seguire.

Articolo pubblicato sul n.3/2019 della rivista bimestrale QualEnergia, con il titolo “Finanza nel cambiamento. Climatico”.

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