La stessa Europa che punta a diventare carbon-neutral nel 2050 azzerando le emissioni di anidride carbonica, ha appena deciso di continuare a finanziare un mega progetto di energia pulita, la fusione nucleare, che però non darà i suoi frutti (ben che vada) prima di quell’anno.
È il progetto di reattore sperimentale termonucleare internazionale (Iter: International thermonuclear experimental reactor), di cui Qualenergia.it aveva parlato in questo articolo evidenziandone le tante incognite.
Il Consiglio Ue, infatti, ha stabilito di destinare al progetto altri 5,61 miliardi di euro per il periodo 2021-2027.
Tuttavia, si legge testualmente in una nota del Consiglio Ue, che riporta le stime della Commissione europea (neretti nostri), “l’importante realizzazione del primo plasma avverrà probabilmente nel dicembre 2025, con la piena operatività prevista per il 2035. Si prevede che l’energia da fusione come fonte energetica commercialmente valida non produca elettricità prima del 2050”.
In sostanza, se tutto andrà per il verso giusto (peraltro è difficile da credere: è da decenni che si afferma che “tra 50 anni” avremo la fusione), si comincerà a produrre energia elettrica con la fusione a metà secolo, vale a dire, quando avremmo già dovuto raggiungere il traguardo della neutralità climatica grazie alle tecnologie che oggi funzionano e sono competitive.
Parliamo delle fonti rinnovabili: eolico a terra e offshore, fotovoltaico, sistemi di accumulo, senza dimenticare le auto elettriche, la riqualificazione energetica degli edifici, una certa quantità di idrogeno verde, oltre alle risorse rinnovabili storiche come idroelettrico e geotermia.
L’accordo sul reattore sperimentale Iter, ricorda la nota del Consiglio Ue, è stato firmato nel novembre 2006 da Euratom, Stati Uniti, Federazione russa, Giappone, Cina, Corea del Sud e India.
L’Euratom, che in forza dell’accordo Iter è la parte ospitante, ha assunto la guida del progetto, il primo a lungo termine per la costruzione e il funzionamento di un reattore destinato a testare la fattibilità della fusione come fonte di energia.
Ecco il punto: la transizione energetica dai combustibili fossili verso le tecnologie pulite richiede molta rapidità: è urgente ridurre le emissioni e arrivare a zero entro il 2050, quindi sarebbe stato più lungimirante spendere ogni singolo miliardo di euro per sviluppare tecnologie mature o che stanno maturando in fretta (rinnovabili, batterie, e così via), piuttosto che per testare la fattibilità di qualcosa che potrebbe non arrivare mai o arrivare fuori tempo massimo.
È la stessa contraddizione in cui è caduto il nuovo ministro italiano della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, quando in audizione a Camera e Senato sulle linee di programma del suo ministero, ha affermato che la fusione “è la rinnovabile delle rinnovabili. Noi oggi abbiamo il dovere nel Pnrr di potenziare il ruolo dell’Italia nei progetti internazionali Iter e Mit sulla fusione. Quello è un treno che non possiamo perdere”.
Ma la fusione nucleare, hanno commentato vari esperti delle rinnovabili e dalle associazioni ambientaliste, non può essere un ingrediente della transizione energetica, date le numerose incognite che circondano questa tecnologia.
La stessa Iea, Agenzia internazionale dell’energia, nei suoi scenari al 2050 non fa alcuna menzione della fusione tra le soluzioni per abbattere le emissioni di CO2.
Si parla, è vero, di un pochino di nucleare, ma di nucleare tradizionale (anche questo frenato da molti problemi: basti vedere i ritardi dei progetti francesi Epr) e non certo di fusione.