Di fronte alla molteplicità degli strumenti finanziari europei a sostegno della ripresa economica, già disponibili o programmati, occorre evitare di farsi prendere da un’ebbrezza più pericolosa di quella etilica.
Se escludiamo il Pandemic Emergency Purchase Programme (Pepp) della Bce per l’acquisto di titoli di Stato nella misura «necessaria e proporzionata» allo scopo di raggiungere gli «obiettivi del mandato», che in termini più burocratici ripropone il «whatever it takes» di Draghi, l’accesso a tutte le altre risorse finanziarie è subordinato all’approvazione di programmi o progetti coerenti con gli obiettivi cui sono destinate.
Vale per gli importi legati alla linea di credito sanitaria del Mes, all’integrazione salariale per le ore non lavorate (Sure), ai finanziamenti della Bei per le Pmi, ma – di particolare interesse per gli investimenti nel settore green – anche per i finanziamenti a progetti energetici da parte della Bei, che recentemente ha deciso di assegnarli soltanto a proposte riguardanti le energie rinnovabili.
Varrà anche per il Recovery Fund (ribattezzato Next Generation Eu), proposto dalla Commissione europea, con una dotazione di 750 miliardi, divisi tra prestiti (250) e aiuti a fondo perduto (500), di cui all’Italia andrebbero rispettivamente 82 e 91 miliardi.
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Gli obiettivi del Recovery Fund
La parte più cospicua del fondo è destinata a sostenere gli investimenti diretti degli Stati membri e a stimolare quelli privati, entrambi finalizzati allo sviluppo della transizione sia verde sia digitale; una distinzione spesso formale, visto il solido matrimonio di interessi esistente tra digitalizzazione ed elettrificazione green.
Non è questo l’unico vincolo all’utilizzo dei fondi, sul quale si eserciterà il controllo della Commissione europea.
Il primo e fondamentale pilastro del Recovery Plan è la Recovery and Resilience Facility (Rrf), che mira a «sostenere gli investimenti e le riforme essenziali per una ripresa duratura dell’economia Ue». Secondo la proposta della Commissione Europea, avrà un budget di 560 miliardi di euro: fino a 310 miliardi saranno trasferimenti e fino a 250 miliardi in prestiti.
Da solo è pertanto destinato ad assorbire i tre quarti dello stanziamento proposto, con la restante parte ripartita tra otto obiettivi (vedi lista a fondo articolo).
Gli Stati membri «prepareranno piani nazionali di ripresa e resilienza… [che] tracceranno le priorità in termini d’investimento e di riforme e i relativi pacchetti di investimenti da finanziare attraverso la Rrf, con un sostegno che verrà rilasciato a rate, a seconda dei progressi fatti e sulla base di parametri predefiniti».
Di là da ogni ragionevole dubbio, l’erogazione dei fondi destinati alla Recovery and Resilience Facility sarà subordinata non solo alla presentazione di piani dettagliati su come saranno investiti (gli obiettivi devono essere coerenti con quelli della Rrf), ma anche all’adozione di riforme che consentano di utilizzarli in modo efficace.
Per esempio, qualora il finanziamento di un’infrastruttura, non sostenuta da un processo decisionale in grado di garantirne l’utilizzo nei tempi programmati, riuscisse a essere approvato, alla prima verifica le rate successive del finanziamento sarebbero bloccate (quasi certamente con l’obbligo di restituire il primo versamento).
Non è quindi compatibile con l’accesso ai fondi della Rrf la situazione denunciata dalla scheda 29 del rapporto Colao: «La durata dell’iter autorizzativo di infrastrutture energetiche è in Italia superiore alla fase realizzativa degli impianti stessi… Le modalità di svolgimento dell’iter stesso (Conferenza dei Servizi, pareri regionali e assenso di altri enti, svolgimenti Via…) ritardano l’avvio e il completamento di nuove opere, diluendo negli anni gli investimenti già presenti nel piano delle principali società del settore», e «attualmente non sono previsti percorsi prioritari per progetti di transizione energetica, limitando di fatto il raggiungimento degli obiettivi previsti dal Pniec (in termini di efficienza energetica, fonti rinnovabili e riduzione di emissioni di CO2…)».
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Ad esempio il caso del Pniec. Secondo una recente analisi, servirebbero 67 anni per realizzarlo, se il tasso di autorizzazioni per la realizzazione di impianti a fonti rinnovabili rimanesse quello del 2017-2018.
Non a caso, durante conferenza stampa sul Recovery Plan, per quanto concerne i processi decisionali, il premier Conte è andato oltre il riferimento di prammatica al decreto semplificazioni.
Per accelerare le procedure e gli iter autorizzativi, «introdurremo misure che valgano a realizzare una rivoluzione culturale nella pubblica amministrazione. I funzionari pubblici, pur in un’ottica di rigore e trasparenza, devono essere incentivati ad assumersi le rispettive responsabilità. Faremo in modo di evitare che sui funzionari onesti, gravi eccessiva incertezza giuridica, per esempio circoscrivendo più puntualmente il reato di abuso d’ufficio e la medesima responsabilità erariale» che, nella versione attuale, rendono possibile un eccesso di interventi da parte della giustizia amministrativa, destinati a condizionare le decisioni del personale dell’amministrazione pubblica.
Per contro, Conte ha ipotizzato la penalizzazione di chi ritarderà la realizzazione di opere, non volendosi assumere la responsabilità di apporre la propria firma a un atto di sua competenza.
Non meno importante è accelerare la riforma del processo civile e penale, i cui tempi lunghi spesso scoraggiano gli investitori esteri.
Occorre infine fare i conti con il ruolo, spesso frenante, di Regioni, Province, Comuni, ma soprattutto con la presenza di un convitato di pietra.
Sottoscrivo fino all’ultima virgola l’intervento sulla Staffetta Quotidiana di Parola e Sileo, efficacemente intitolato “Il morbo delle Soprintendenze”, in cui si denuncia il «rallentamento dei procedimenti di autorizzazione determinato dalla messe di pareri negativi espressi dal Mibact nell’ambito dei procedimenti unificati di autorizzazione, anche in assenza di vincoli paesaggistici, archeologici o urbanistici sulle aree interessate».
La distanza tra parole e fatti
Nella conferenza stampa del 3 giugno Conte ha solo indirettamente chiamato in causa i ritardi di cui sono responsabili anche i governi da lui presieduti, entrambi unanimi nel considerare prioritarie tali misure, come d’altronde lo erano i governi precedenti.
Tutti egualmente incapaci di passare dalle parole ai fatti (vedi Dl Semplificazioni, il testo in Gazzetta, ndr)
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La tempistica non può essere quella dell’emanazione del Decreto Fer1 o, peggio ancora, del Decreto Fer2, mentre scrivo ancora in mente Dei. E nell’errore si persevera.
Il Decreto Rilancio richiede almeno 90 provvedimenti attuativi. Quanto tempo ci vorrà perché diventi pienamente operativo?
Per esempio, l’ecobonus al 110% è una misura in grado di accelerare l’efficientamento integrale del patrimonio edilizio, responsabile di quasi il 40% dei consumi energetici italiani, nel frattempo ridando vigore all’’industria delle costruzioni, che rappresenta l’8% del Pil, con effetti a cascata su altri settori, quantificabili in un incremento di mezzo punto dello stesso Pil (vedi Superbonus, i punti più importanti chiariti dall’Agenzia delle Entrate, ndr).
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Per iniziare i lavori, le imprese dovranno disporre di sufficiente liquidità o di facile accesso al credito, condizioni oggi difficilmente presenti nel settore delle costruzioni. Come per altre misure già operative, l’atteggiamento delle banche potrà provocare ritardi.
I problemi sollevati da Conte e l’urgenza di risolverli sono quindi drammaticamente reali. Siamo oltre la metà del 2020 e, se non ci saranno inciampi sul cammino del Recovery Fund, le prime proposte, con le relative misure già operative, dovranno essere pronte per fine anno.
Con questi precedenti, sarà possibile attuare in tempi così brevi la discontinuità decisionale prospettata dal premier?
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Nelle schede 20 e 21 il rapporto Colao propone di regolare con un regime ad hoc l’implementazione delle infrastrutture “di interesse strategico”, tra cui quelle energetiche e per la salvaguardia dell’ambiente, pianificandone una rapida esecuzione attraverso una unità di presidio presso la Presidenza del Consiglio responsabile della rapida esecuzione degli investimenti previsti e dotata di pieni poteri decisionali. Insomma, una replica di quanto si è fatto per la ricostruzione del ponte Morandi.
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Il rischio però è che con vecchia pratica del rinvio, sarà arduo presentare proposte concrete per realizzare quanto auspicato da Conte, cioè la modernizzazione del Paese attraverso:
- lo sviluppo di tutte le reti, in particolare con l’estensione della banda larga all’intero territorio nazionale, condizione essenziale per realizzare la sua completa digitalizzazione, in modo da poter diffondere i pagamenti elettronici (antidoti all’economia sommersa) e utilizzare la ricapitalizzazione dei settori produttivi per trasformare le aziende in Imprese 4.0 plus.;
- l’estensione dell’alta velocità a tutto il Mezzogiorno;
- abbandonare i combustibili fossili per passare alle energie rinnovabili;
- creare degli spazi industriali in cui si lavori per l’economia circolare.
Per realizzare questi obiettivi, il premier ha chiesto la collaborazione di tutti: «abbiamo bisogno dell’appoggio di tutto il Paese e dobbiamo essere coerenti, perché non possiamo parlare di transizione energetica e poi avere perplessità per gli impianti eolici, fotovoltaici e per l’energia idrica». Siamo però ancora alle parole.
Superare la debolezza politica e sociale
Occorre tenere presente che l’attuale maggioranza di governo, oltre a registrare frequentemente disaccordi tra le forze politiche che la compongono, rallentandone l’azione, deve confrontarsi con un’opposizione pure divisa, quindi, anche se lo volesse, in difficoltà a collaborare senza rendere palesi gli attriti esistenti al proprio interno.
Oltre a tutto, come spesso accade, piove sul bagnato. Rompendo con la tradizione di una Confindustria propensa ad avanzare critiche al governo in carica usando il fioretto, con il nuovo presidente siamo passati alla sciabola. Bonomi ha preso di petto l’esecutivo, affermando che la sua politica dello struzzo rischia di fare più danni del Covid-19. Né si tratta di un cambiamento dovuto a ragioni caratteriali.
In un’assemblea, anche il vicepresidente Maurizio Stirpe ha affermato che «questo Governo non ama l’impresa: prende sistematicamente decisioni e assume provvedimenti che vanno nella direzione opposta a quella auspicabile per ottenere lo sviluppo del sistema delle imprese […] A volte è un problema di scarsa competenza. A volte è più sottile, come se ci fosse un gusto quasi sadico a rendere ancora più tortuoso il cammino dell’imprenditore».
Il governo è inoltre accusato di privilegiare il rapporto con i sindacati dei lavoratori, che a loro volta per la soluzione dei problemi preferiscono trattare con l’esecutivo e non con Confindustria.
Il clima, insomma, non è dei migliori per un governo che avrà il compito di selezionare i progetti da presentare per il finanziamento europeo, individuando quelli maggiormente in grado di soddisfare i fabbisogni reali (non immaginari, come spesso accade) del Paese e al contempo in sintonia con gli obiettivi del Green Deal europeo.
Di conseguenza, si dovranno scartare altre proposte, resistendo alle pressioni dei loro stakeholder e dei loro padrini politici. Né è detto che questi possano essere “accontentati” con il varo di successivi progetti, qualora non fossero coerenti con le strategie nazionali ed europee.
Si tratta quindi di abbandonare le tradizionali scelte politiche, governate dalla ricerca di soluzioni in grado di soddisfare per quanto possibile i desiderata dei partiti di governo e dei più influenti stakeholder. In aggiunta, decisioni così epocali andranno prese in autunno, in presenza di una situazione economica fortemente deteriorata.
Un milione di Pmi è a rischio di chiusura definitiva e il tessuto imprenditoriale, che un sondaggio Bva Doxa descrive per la maggior parte (circa il 70%) preoccupato per il futuro, nel suo complesso nutre scarsa fiducia nelle istituzioni – tra il 50 e l’80% ne ha poca o nulla.
Le precondizioni per uno tsunami sociale ci sono quindi tutte. L’unico modo per evitarlo è non perdere l’irrepetibile occasione che gli strumenti di finanziamento europei ci offrono per una ricostruzione economica e sociale coerente con gli indirizzi europei.
Difficilmente un cambiamento così memorabile potrà verificarsi senza che una parte rilevante del mondo produttivo, finanziario e dei servizi si schieri a sostegno di politiche che realizzino decisioni prese nell’interesse della collettività, esercitando una pressione così rilevante da controbilanciare le richieste e le sollecitazioni di natura autoreferenziale.
L’articolo è pubblicato integralmente è sul n.3/2020 della rivista bimestrale QualEnergia con il titolo “Tsunami sociale”.
Recovery and Resilience Facility
- REACT EU: 55 miliardi veicolati attraverso la politica di coesione verso i territori più colpiti dalla crisi
- Un fondo da 40 miliardi a sostegno dei territori più in difficoltà nell’affrontare la transizione ecologica
- Fondo agricolo per lo sviluppo rurale: dotazione supplementaredi 15 miliardi per azioni in linea con il Green New Deal
- Solvency Support Instrument: 31 miliardi, che potrebbero mobilitarne oltre 300 per sostenere, già a partire dal 2020, le aziende sane prima della crisi
- INVEST EU (ex Piano Juncker): dotazione aggiuntiva di 15,3 miliardi per mobilitare 150 miliardi di investimenti
- EU 4 HEALTH: nuovo programma europeo per la sanità, dotato di 9,4 miliardi
- HORIZON EUROPE: 11 miliardi di dotazione aggiuntiva per sostenere la ricerca in Europa
- Azione esterna: dotazione aggiuntiva di 16,5 miliardi per interventi nei Paesi vicini, soprattutto nei Balcani