Il saggio “Il destino di Roma” di Kyle Harper ha fatto parte della documentazione che Gianni Silvestrini ed io abbiamo utilizzato per scrivere il libro “Le trappole del clima”.
È un’analisi dettagliata (368 pagine) e documentatissima (135 di riferimenti bibliografici), di come l’insorgere di epidemie, favorite dal cambiamento climatico, avesse indebolito l’esercito romano, favorendone la sconfitta da parte degli invasori (i barbari), a loro volta costretti a spostarsi verso sud dalla siccità e da temperature diventate più rigide.
Il libro di Harper si conclude con questo monito: “Lungi dal rappresentare la scena finale di un mondo antico irrimediabilmente perduto, l’incontro di Roma con la natura può costituire piuttosto il primo atto di un nuovo dramma, che si sta ancora svolgendo intorno a noi. Un mondo precocemente globalizzato, dove la vendetta della natura comincia a farsi sentire, nonostante la persistente illusione di esercitare un controllo … tutto questo potrebbe suonarci non così sconosciuto. Il primato dell’ambiente naturale nel destino di questa civiltà ci avvicina ai romani accalcati nei teatri ad applaudire gli antichi spettacoli, senza nulla sospettare del prossimo capitolo della storia, in modi che mai avremmo potuto immaginare”.
Nel libro abbiamo citato il saggio di Harper all’interno del capitolo in cui documentiamo i possibili effetti a lungo termine di un’emergenza climatica non combattuta con provvedimenti tempestivi. Abbiamo però omesso di citare il suo preoccupato riferimento a eventi drammatici di natura diversa che, subito dopo la pubblicazione del nostro libro, con la crisi pandemica da possibili sono diventati effettivi
Eppure, Harper descrive un mondo non dissimile da quello odierno. Era stata la diffusione, nell’età imperiale, del gigantismo metropolitano – Roma raggiunse la cifra, incredibile per l’epoca, di un milione di abitanti – a creare le condizioni per l’insorgenza di epidemie interne, mentre la conseguente crescita della domanda di generi alimentari e di conforto aveva creato la prima globalizzazione commerciale, con navi che collegavano Roma ai porti di tutto il mondo allora conosciuto (fino alla lontana India), diventate inevitabili vettori di qualsiasi epidemia si fosse sviluppata altrove.
Un errore di lettura imperdonabile, il nostro, ma comprensibile. Come confermano i ritardi e le incomprensioni con cui l’occidente ha reagito alla diffusione del Covid-19 al proprio interno, fino a ieri le epidemie erano vissute come fenomeni del passato o, se attuali come l’Ebola, confinate nel mondo meno sviluppato. Un concetto astratto, lontano dalla realtà quotidiana.
Viceversa, il virus ha colpito con maggiore virulenza proprio la Lombardia, cioè la regione italiana più sviluppata secondo il pensiero dominante, che tutto misura solo in termini di PIL. Circostanza che non dovrebbe stupire, se ci liberiamo dei paraocchi. Similmente alla Roma imperiale, lì è ubicata la principale costellazione di assembramenti urbani, resi insalubri non dalle condizioni igienico-sanitarie dell’antichità, ma dall’elevato livello d’inquinamento; lì gli interscambi di uomini e merci riflettono un livello di globalizzazione molto sviluppato.
Non entro nel merito delle ipotesi secondo cui le alte concentrazioni di polveri registrate nel mese di febbraio nella pianura padana avrebbero prodotto un’accelerazione alla diffusione del Covid-19. Anche se così non fosse, non va dimenticato che la stragrande parte dei decessi si è verificata in persone già colpite da altre patologie, tra cui rientrano anche quelle provocate dall’inquinamento atmosferico.
Infatti, secondo il rapporto “Air quality 2019” dell’Agenzia europea dell’ambiente, nel 2016 in Italia 76.200 morti premature erano attribuibili al particolato solido, agli ossidi di azoto e all’ozono presenti nell’atmosfera e, in rapporto al numero di abitanti, il nostro paese si collocava nettamente al primo posto rispetto agli altri principali Stati dell’Ue (Germania, Francia, Spagna).
Classifica che contribuisce a spiegare le ragioni della maggiore virulenza di Covid-19 nel nostro paese.
Sono morti in larga parte concentrati in Lombardia: tra le città italiane che nel 2018 hanno superato almeno uno dei limiti giornalieri previsti per il Pm10 o per l’ozono, “Mal’aria 2019”, il rapporto annuale di Legambiente, mette ai primi tre posti Brescia (150 volte), Lodi (149), Monza (140), al sesto Milano (135), al nono Bergamo e Cremona (127).
Gran parte dell’Italia settentrionale, in particolare la Lombardia, è pertanto soggetta a un pericolo per la salute dei cittadini che, essendo endemico e provocando decessi la cui causa è identificabile solo ex-post a livello aggregato sulla base di indagini statistiche, da una larga parte dei cittadini non viene vissuto come un rischio che incombe quotidianamente su di loro.
Eppure, per l’Italia corrisponde a una media giornaliera di circa 209 decessi prematuri, contro i circa 800 provocati dal Covid-19, proprio mentre scrivo queste righe.
Un’epidemia che non si riesce ancora a tenere sotto controllo giustifica la sequenza di provvedimenti varati e le preoccupazioni dei cittadini.
Viceversa, la “tranquillità” con cui le aree maggiormente colpite sia dal virus, sia dall’inquinamento vivono il secondo (che pure concorre a creare patologie più facilmente attaccabili dal Covid-19), è spiegabile solo perché si sa che è reale, ma nello stesso tempo avulso dalla personale esperienza quotidiana.
D’altronde, fino a un paio di mesi fa è stato così anche per il rischio di un’epidemia e continua a esserlo per le ormai non troppo lontane conseguenze di un’emergenza climatica non affrontata tempestivamente con la necessaria energia.