Il dubbio pragmatismo materno di Meloni alla Cop 29

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La premier rivendica di essere madre ma, dal nucleare al gas azero, le soluzioni che propone non contribuiranno a lasciare alla prossima generazione un mondo migliore.

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“Io sono una madre e come madre niente mi gratifica di più di quando lavoro per politiche che permetteranno a mia figlia e alla sua generazione di vivere in un posto migliore.”

Così, in pieno stile “Io sono Giorgia”, la presidente del Consiglio Meloni ha concluso ieri il suo intervento alla Cop 29.

Peccato che la premier non abbia affatto parlato di misure che possano rallentare il cambiamento climatico a beneficio delle nuove generazioni.

Meloni, infatti, non ha annunciato nessun nuovo impegno economico, ha citato solo di sfuggita le rinnovabili, mentre si è soffermata su soluzioni che hanno possibilità solo remote di dare un contributo concreto, come la cattura della CO2 e la fusione nucleare, o che invece sono parte del problema, come il gas.

Tutto questo in Azerbaigian, petro-Stato autoritario con cui l’Italia intrattiene un rapporto stretto dovuto alla nostra dipendenza dal metano azero, mentre il presidente Ilham Aliyev definisce le fonti fossili “un dono divino”.

Nel suo intervento, la presidente del Consiglio ha riproposto le note accuse a “un approccio troppo ideologico e non pragmatico” nel lottare contro il global warming, invocando “la neutralità tecnologica”.

“Attualmente non esiste un’unica alternativa all’approvvigionamento da fonti fossili”, ha detto, ignorando dunque scenari come quello della Iea che, lungi dalla neutralità tecnologica, individua in specifiche tecnologie già mature la strada da seguire, in primis rinnovabili, batterie e sistemi per elettrificare i consumi.

Per Giorgia Meloni serve “un mix energetico equilibrato”, dunque “non solo rinnovabili, ma anche gas, biocarburanti, idrogeno, cattura della CO2 e, in futuro, il nucleare da fusione che potrebbe produrre energia pulita, sicura e illimitata”.

L’Italia “è impegnata in prima linea sul nucleare da fusione”, ha tenuto a sottolineare, ricordando la prima riunione del Gruppo mondiale per l’energia da fusione promosso dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, organizzata durante la presidenza italiana del G7.

Mentre il presidente spagnolo Pedro Sanchez portava alla Cop 29 l’urgenza di agire parlando del disastro climatico di Valencia, la premier “madre” ha trovato opportuno concentrarsi nemmeno sul nucleare “normale”, che comunque non potrà dare un contributo prima di almeno un decennio e a costi proibitivi, ma addirittura sulla fusione, soluzione in fase embrionale e zeppa di problemi che da decenni rimane solo una promessa.

Il Reattore Termonucleare Sperimentale Internazionale (Iter), ricordiamo, non funzionerà almeno fino al 2039. In quell’anno, la figlia della presidente del Consiglio sarà già da molto nell’età adulta, mentre, secondo l’analisi di Copernicus, il servizio sui cambiamenti climatici dell’Ue, già in questo 2024 supereremo la soglia critica stabilita a Parigi dei +1,5 °C dai livelli preindustriali. Alla faccia del pragmatismo materno.

Altro passaggio significativo è quello in cui Meloni magnifica il “rilancio di una nuova diplomazia energetica, che moltiplichi le occasioni di cooperazione tra Nord e Sud del mondo”, citando ovviamente il Piano Mattei per l’Africa: piano ormai stranoto nel nome e ancora oscuro nei contenuti, salvo per il fatto che ha come perno l’import di gas e petrolio.

Veniamo qui a uno dei motivi che probabilmente hanno spinto Meloni a Baku, mentre tanti altri leader, Von der Leyen in testa, hanno disertato questa Cop 29: i rapporti con il Paese ospite, cioè l’Azerbaigian.

Il presidente azero Ilham Aliyev, ricordiamo, ha aperto la conferenza mettendo in chiaro che “petrolio e gas sono un dono di Dio” e che gli Stati “non devono essere incolpati per avere queste risorse e immetterle sul mercato”. Non c’è da stupirsi visto che il 90% dei proventi da esportazioni, il 60% delle entrate pubbliche e il 35% del Pil del paese dipendono dai combustibili fossili.

Come ricorda una recente analisi di Ecco Climate, l’Azerbaigian esporta verso l’Italia il 57% del proprio petrolio e il petrolio azero pesa per il 15% dell’import totale italiano. Allo stesso modo, Baku è essenziale nella strategia italiana di diversificazione dal gas russo: esporta circa il 20% della sua produzione di metano in Italia ed è il nostro secondo fornitore dopo l’Algeria, rappresentando ad oggi circa il 16% dell’import totale di gas.

La volontà di ampliare la cooperazione energetica tra Italia e Azerbaigian passa per il previsto raddoppio del gasdotto Trans Adriatic Pipeline (Tap), che dovrebbe passare da una capacità di 10 a 20 miliardi di metri cubi l’anno.

L’Azerbaigian (come sottolinea una recente inchiesta video di Recommon) è governato da decenni con il pugno di ferro dalla famiglia Aliyev. “Eppure i governi europei, Italia in testa, nel nome dei combustibili fossili fanno finta di non vedere le continue violazioni dei diritti degli oppositori azeri, siano essi politici, giornalisti o addirittura artisti”, denuncia l’Ong.

Nell’autunno 2023, come noto, l’Azerbaigian ha lanciato un’operazione militare contro l’Armenia, suscitando allarmi per il rischio di pulizia etnica o genocidio della popolazione indigena armena.

Secondo l’analisi di Ecco, “la posizione che l’Italia ha mantenuto sul conflitto tra Azerbaigian e Armenia per il Nagorno-Karabakh”, di sostanziale silenzio, “è l’esito diplomatico di un rafforzamento delle relazioni tra Roma e Baku sulla base di interessi economici, soprattutto di natura energetica”.

I piani di aumento di esportazione di gas dall’Azerbaigian verso l’Italia, prosegue l’analisi di Ecco, si inseriscono in un quadro dove scommettere sul gas espone a numerosi rischi. In primis, impostare una relazione incentrata sul metano senza supporto alla diversificazione economica significa condannare l’Azerbaigian a un futuro di entrate incerte e a rischio.

E soprattutto, se l’Italia vuole rispettare l’Accordo di Parigi, non deve investire in nuova capacità a gas: rischia di generare stranded asset, ossia investimenti che andranno persi in quanto non più remunerativi.

Meloni dovrebbe valutare anche questo quando pensa a ciò che vuole lasciare a sua figlia.

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