La cultura (energetica) che fa risparmiare l’industria

È stato detto che con la cultura non si mangia. Mai frase fu più infelice. In uno stabilimento svedese del gruppo Volvo si dimostra che l'approccio comportamentale del risparmio energetico e dei dipendenti produce efficienza energetica, risparmio economico e molto altro.

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I sistemi energetici sono parte integrante della nostra vita quotidiana e la loro efficienza ed efficacia, rispetto agli obiettivi che vogliamo raggiungere, sono fortemente condizionati dall’uso che ne facciamo.

Siamo immersi in sistemi socio-tecnici dove la tecnologia e le persone, singolarmente o collettivamente, giocano un ruolo almeno paritario nel determinare impatti ambientali ed economici, individuali e sociali, più o meno positivi.

L’uso efficiente dell’energia è sempre più l’esito del cambiamento di comportamento delle persone.

Se è vero che la domotica, la sensoristica, per non dire l’intelligenza artificiale, possono sostituirsi all’azione umana, è anche vero che l’uso della nostra intelligenza può ottenere gli stessi risultati, a un costo inferiore, magari pure con una gratificazione personale e sociale non stimabile con le misure economiche.

Antonio Disi, architetto del comportamento e ricercatore di Enea, si definisce studioso dell’energia e delle umane debolezze che ne accompagnano l’uso e la produzione e ama sperimentare nuovi linguaggi per raggiungere sia il grande pubblico che le imprese e la pubblica amministrazione.

Il caso che ci porta ad affrontare l’oggetto del suo lavoro riguarda una sperimentazione avviata con successo in uno degli stabilimenti svedesi di Volvo, la Volvo Construction Equipment AB di Braås.

Nell’ambito delle politiche aziendali di sostenibilità, il caso di studio, documentato in una pubblicazione dal titolo “A behavioral change-based approach to energy efficiency in a manufacturing plant” (pdf in fondo all’articolo) ha dimostrato che in un’industria manifatturiera è effettivamente possibile un uso dell’energia più efficiente attraverso un “semplice” cambiamento nel comportamento abituale del personale, dai dirigenti agli addetti alla produzione, senza che siano necessari incentivi espliciti, materiali o economici.

I passaggi chiave del progetto

Tra il 2004 e il 2014 la Svezia ha sviluppato un programma per ridurre i consumi energetici delle industrie ad alta intensità energetica con risultati modesti. Dal 2014 ha quindi reso obbligatorio un audit energetico ogni quattro anni per le grandi imprese.

La riduzione dei consumi di energia nel settore industriale si è tuttavia concentrata prevalentemente sugli aspetti tecnologici, trascurando quello della gestione dell’energia e la sensibilizzazione ad un suo uso consapevole.

Il piano di Volvo si sostanzia in 4 passaggi:

  1. Ridurre il consumo di elettricità inattiva durante i fine settimana, fuori dagli orari di produzione (sabato-domenica).
  2. Ridurre il consumo di elettricità inattiva fuori dalle ore di produzione durante i giorni feriali (orario notturno).
  3. Ridurre il numero e/o la durata dei turni di produzione, ma mantenendo costante il livello di produzione.
  4. Ridurre il consumo di energia durante le ore di produzione.

Lo stabilimento di Braås ha concentrato la sua azione sui primi due punti con l’obiettivo di conseguire un consumo di energia inattiva non superiore al 15% dell’energia elettrica consumata durante le ore di produzione.

“Il problema affrontato nello stabilimento – ci spiega Disi – riguardava i consumi dei macchinari che rimanevano in stand-by tra un turno e l’altro, di notte o nei giorni festivi. Attraverso un’azione strutturata, con una figura ad hoc che ha lavorato con tutti gli addetti alla produzione, nel periodo gennaio 2013/dicembre 2016 lo stabilimento ha ridotto del 32% il consumo di elettricità inattiva e del 14% il consumo totale di energia elettrica”.

Il responsabile delle politiche ambientali ha coinvolto l’intera organizzazione assegnando a ciascun livello gerarchico diversi compiti. Il leader che si è occupato a tempo pieno del progetto è stato selezionato all’interno dell’area produttiva.

Al fine di monitorare l’andamento della sperimentazione, è stato implementato un sistema di misurazione settimanale del consumo di energia di tutte le apparecchiature di produzione.

Lo scopo del progetto è stato illustrato all’intera organizzazione mostrando come veniva usata l’energia e le potenzialità di riduzione. Obiettivi, piani e azioni per conseguirli sono stati liberamente studiati e implementati dai responsabili delle singole linee di produzione insieme agli addetti che, avendo esperienza diretta delle macchine, decidono quali possono essere spente e quando.

Diverse squadre, che comprendono tutti i livelli dell’organizzazione, organizzano poi dei sopralluoghi durante la notte per verificare quali sono le macchine che restano accese fuori dai turni di produzione. I responsabili delle linee di produzione si incontrano settimanalmente con il responsabile del progetto per valutare i risultati raggiunti e le statistiche sull’uso dell’energia sono periodicamente comunicate al top management dello stabilimento.

“Il cambiamento comportamentale – ci dice Disi – ha tre problemi: il costo, il conseguente rapporto con il beneficio prodotto e la sua permanenza. Con questo caso si è dimostrato che i costi erano molto bassi, limitandosi allo stipendio del leader operativo di circa 85.000 euro, un risparmio rilevante e che dura nel tempo, dopo un’azione importante rispetto agli obiettivi”.

Motivazione e consapevolezza: stimolo ed esito di un processo di apprendimento

Ma come si garantisce la durata nel tempo di un cambiamento che riguarda soprattutto le attitudini personali?

La sperimentazione ha tenuto conto dei fattori che influenzano le performance di un progetto di efficienza energetica basato sul comportamento.

Questi partono dalla motivazione che a sua volta è influenzata da diversi fattori quali obiettivi, norme personali e sociali, cultura aziendale, leadership, comunicazione e cooperazione tra i dipendenti.

“È dimostrato che incentivi economici o materiali perdono di efficacia nel tempo – spiega Disi – mentre lo stimolo che deriva da una forte motivazione di fondo dei diversi soggetti di livello dirigenziale coinvolti, rispetto alla riduzione dell’impatto ambientale e della responsabilità sociale dell’azienda verso il territorio, ha un’efficacia ben superiore e durevole, avendo a che fare anche con la propria identità personale e professionale”.

La teoria di base è che la gestione della motivazione dovrebbe avere la priorità sulla gestione dei membri dell’organizzazione e che la stessa può essere alimentata da obiettivi specifici e misurabili. Una buona definizione degli obiettivi, infatti, incoraggia i partecipanti a impegnarsi in modo sostanziale e, pertanto, è uno strumento importante per i manager per migliorare le prestazioni dei dipendenti. Se gli obiettivi o i risultati attesi vengono spiegati chiaramente, la motivazione aumenta.

“A livello degli operatori, cioè le persone che devono effettivamente modificare i propri comportamenti, alla motivazione si aggiunge la riorganizzazione dei processi. Se lavoro con una macchina che impiega cinque minuti a ripartire dopo lo spegnimento, nella pausa pranzo questa non viene spenta perché la sua riaccensione ritarderebbe l’avvio della produzione alla ripresa del lavoro. Pertanto – conclude Disi – occorre lavorare sulle fasi della produzione per ottimizzarla rispetto agli altri obiettivi che l’azienda si è data, in questo caso quindi il risparmio energetico e la sostenibilità ambientale”.

Altro tema è quello della consapevolezza, che si realizza attraverso l’educazione e rendendo il problema visibile e tangibile per le persone. Di fondamentale importanza poi, è la comunicazione, che non deve essere un mero trasferimento di informazioni, ma una relazione tra il mittente e il destinatario.

Inoltre, le persone che sentono la protezione dell’ambiente come obbligo morale hanno maggiori probabilità di sacrificare la loro libertà per raggiungere degli obiettivi e questa tendenza aumenta se il gruppo sociale di riferimento assume tale comportamento come norma.

La cooperazione, infine, offre ai dipendenti la possibilità di rendersi visibili e riconoscibili, mentre la cultura organizzativa e una leadership fortemente improntate alla promozione del risparmio energetico fungono da modello di riferimento.

Inevitabile parlare di Comunità energetiche, attualmente la configurazione privilegiata nella quale mettere a sistema l’intelligenza collettiva attraverso processi partecipativi che sviluppano cultura energetica e massimizzano i benefici che ci derivano dalla produzione di energia da fonti rinnovabili.

Un po’ più complicato applicare l’intelligenza collettiva alle fonti fossili che in qualche modo ci hanno sempre relegato nel ruolo, anche comodo, di consumatori passivi.

Antonio Disi cita l’antropologo americano Leslie White, secondo il quale, “a parità di condizioni, il grado di sviluppo culturale varia proporzionalmente con l’ammontare di energia pro capite controllata e utilizzata”.

“La disponibilità e l’uso che facciamo dell’energia – chiarisce Disi – ci permettono di sviluppare cultura che, a sua volta, definisce il valore stesso che noi attribuiamo all’energia. Se è vero che una macchina a gasolio ci garantisce mille chilometri di autonomia, di libertà, la scelta di un veicolo elettrico, del car sharing o del servizio pubblico, che in qualche modo limita la nostra libertà personale, esprime tuttavia un sistema di valori che non fa più riferimento all’io ma al noi, alla comunità, alla giustizia sociale e ambientale”.

Il direttore generale del progetto di Volvo ha spiegato che la motivazione che lo ha spinto a questa esperienza va ricercata nei valori ambientali che sono a fondamento dell’azienda, ma soprattutto nel fatto che la riduzione del consumo di elettricità inattiva “crea una cultura dell’efficienza energetica nell’azienda, comporta costi bassi e può essere autofinanziata e il risparmio conseguito diventa una fonte di investimenti futuri in macchine ad alta efficienza energetica”.

Gli operai hanno manifestato un atteggiamento positivo nei confronti del progetto perché, hanno detto, “ha dato loro uno scopo”.

Hanno sottolineato che via via che il progetto avanzava, spegnere le luci e le macchine è diventato sempre più facile per loro essendosi attivato un generale senso di responsabilità che si è esteso nella vita privata. Alcuni dei dipendenti più giovani hanno infatti adottato misure di risparmio energetico anche a casa.

A behavioral change-based approach to energy efficiency in a manufacturing plant – Krushna Mahapatra, Rickard Alm & Ramona Hallgren, Lena Bischoff, Nil Tuglu, Le Kuai, Ye Yang, Ibrahim Umoru, 2017 (pdf)

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