Cosa vuol dire la nomina di John Kerry a zar del clima per la politica Usa

Un altro segnale che indica come Joe Biden voglia fondere sicurezza nazionale, politica estera e clima in un insieme organico.

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In un turbinio di nuove nomine in vista del passaggio di consegne alla Casa Bianca, il presidente eletto degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato che John Kerry, ex segretario di Stato nell’amministrazione Obama e protagonista della firma dell’accordo sul clima di Parigi, assumerà il ruolo chiave di inviato speciale del presidente sul cambiamento climatico.

Particolarmente significativo è il fatto che Kerry siederà nel National Security Council, l’organismo responsabile della pianificazione della politica estera e delle questioni militari statunitensi.

È la prima volta, infatti, che qualcuno nel consiglio si occuperà esclusivamente di clima – ed è l’ultimo segnale che Joe Biden intende fondere sicurezza nazionale, politica estera e politica climatica in un insieme organico e auspicabilmente coerente, utilizzando non solo le azioni esecutive in patria ma anche un ritrovato ruolo nella politica estera e nei consessi multilaterali per combattere il riscaldamento globale.

Nella sua campagna elettorale, Biden aveva promesso che la lotta alla crisi climatica sarebbe stata al centro della sua azione politica, e uno dei modi per valutare quanto la nuova amministrazione faccia sul serio sul cambiamento climatico inizia proprio dalla scelta dei “lottatori” – e non si può dire che Biden non abbia scommesso su un lottatore di peso con la nomina di Kerry.

“Questo è un segnale tremendamente importante“, ha detto a Grist Nathaniel Keohane, vicepresidente senior dello Environmental Defense Fund. “Indica che l’amministrazione Biden vuole mettere il cambiamento climatico al centro dell’attenzione per quanto riguarda il modo con cui ci relazioniamo con il mondo”.

Kerry è stato anche il candidato democratico alla presidenza nel 2004 ed è un ex senatore del Massachusetts. Porta in dote una lunga storia di negoziati internazionali e di impegno contro il cambiamento climatico. Come Segretario di Stato per quattro anni con Obama ha contribuito alla realizzazione dell’accordo di Parigi del 2015 per limitare le emissioni globali di gas serra. L’anno scorso, Kerry ha lanciato un’iniziativa chiamata “Guerra Mondiale Zero”, volta a portare le emissioni nette statunitensi a zero entro il 2050.

“L’America avrà presto un governo che tratta la crisi climatica come l’urgente minaccia alla sicurezza nazionale che è. Sono orgoglioso di collaborare con il presidente eletto, con i nostri alleati e i giovani leader del movimento per il clima per affrontare questa crisi come inviato del presidente per il clima”, ha scritto Kerry su Twitter.

Nonostante faccia parte dell’establishment istituzionale, Kerry si è guadagnato il rispetto e il sostegno di alcuni degli esponenti per il clima più di sinistra, come la rappresentante democratica alla Camera Alexandria Ocasio-Cortez, con cui ha presieduto una task force sul cambiamento climatico per la campagna di Biden, dopo il ritiro del Senatore Bernie Sanders dalla corsa presidenziale; la task force comprendeva anche Varshini Prakash, co-fondatrice del movimento giovanile Sunrise.

“Ho servito col segretario Kerry quest’estate nella task force Biden-Sanders e una cosa è chiara: gli importa veramente fermare il cambiamento climatico. Ci si può lavorare”, ha scritto Prakash su Twitter dopo l’annuncio del gruppo di transizione di Biden sulla nomina di Kerry.

Sebbene alcuni media americani abbiano riferito che Kerry assumerà la funzione di “zar del clima” – un ruolo reso popolare dall’amministrazione Obama – tale carica andrà probabilmente ad una figura più orientata all’azione interna. Almeno sotto Obama, infatti, lo zar del clima aiutava a creare e implementare la strategia climatica a livello nazionale.

Ma con un Senato probabilmente controllato dai repubblicani, o comunque con una eventuale maggioranza democratica estremamente risicata, la scena internazionale potrebbe essere più importante che mai. Biden ha fatto un’intensa campagna sul cambiamento climatico, promettendo di spendere miliardi di dollari in energia pulita e di aderire di nuovo agli accordi di Parigi, che gli Stati Uniti hanno ufficialmente lasciato il giorno dopo le elezioni del 2020.

Se il Senato però rimarrà a guida repubblicana – cosa che si saprà solo dopo i due ballottaggi previsti in Georgia a gennaio – è prevedibile che cercherà di mettere i bastoni fra le ruote a un po’ tutte le iniziative legislative di Biden sul clima, fra cui gli enormi investimenti promessi nelle energie rinnovabili, costringendo l’amministrazione Biden a fare affidamento sulle azioni esecutive e sul suo ritrovato peso internazionale.

Anche lo stesso rientro degli Usa negli accordi di Parigi, promesso da Biden come uno dei suoi primi atti formali, potrebbe in realtà impantanarsi o essere addirittura rigettato, se dovesse passare attraverso un voto del Congresso con un Senato a guida repubblicana.

Già nel 2015 Barack Obama, aveva dovuto aggirare il meccanismo legislativo che prevede la ratifica dei trattati internazionali da parte del Senato con una maggioranza di 2/3 dei voti, poiché già allora i repubblicani avevano la maggioranza al Senato. All’epoca, Obama poté approvare la partecipazione Usa agli accordi di Parigi con un semplice ordine esecutivo facendo leva sul carattere volontario e non vincolante di tali accordi, cosa che rendeva superflua una ratifica del Senato.

Tuttavia la giurisprudenza Usa è molto divisa su questo tema, vista anche la complessa articolazione multilaterale dell’accordo, e se gli obiettivi fissati a Parigi dovessero diventare poi anche più stringenti rispetto a quelli del 2015, allora potrebbe essere difficile per gli Usa approvare tutto solo con un ordine esecutivo.

E se anche Biden dovesse provare a far rientrare gli Usa negli accordi di Parigi dalla porta di servizio di un ordine esecutivo, i repubblicani potrebbero decidere di impugnare la decisione di fronte ad un tribunale, procedimento che andrebbe inevitabilmente a finire di fronte alla Corte Suprema – la nuova Corte a stragrande maggioranza repubblicana, a seguito della controversa nomina di Amy Comey Barrett da parte del Presidente uscente Donald Trump nelle scorse settimane.

La nomina di Kerry è quindi una buona notizia per la lotta alla crisi climatica, ma l’avvio della nuova politica estera, ambientale ed energetica statunitense si troverà a percorrere una strada tortuosa, dove non è possibile escludere pericolosi incidenti di percorso.

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