“Limitare le emissioni di CO2 a un livello tale da forzare una transizione a livello nazionale dall’uso del carbone per la produzione di energia elettrica può essere una ‘soluzione ragionevole alla crisi del giorno’ (…) Ma non è plausibile che il Congresso abbia dato all’Environmental Protection Agency (Epa) l’autorità di adottare autonomamente un tale modello regolatorio (…) Una decisione di tale portata e conseguenza spetta al Congresso stesso, o a un’agenzia che agisce in base a una chiara delega da parte di tale organo rappresentativo”.
È questo il succo (traduzione, tagli e neretti nostri) della sentenza con cui ieri la Corte Suprema statunitense ha accolto con sei voti a favore e tre contrari il ricorso dello Stato americano della West Virginia contro l’Epa, ribaltando una precedente sentenza della Corte d’Appello del Distretto della Columbia che garantiva invece all’Epa la prerogativa di indirizzare in maniera cogente la politica ambientale Usa in tema di CO2.
La sentenza ha sollevato aspre critiche da parte democratica, per la minaccia che pone agli sforzi di decarbonizzazione Usa, e ampi consensi da parte repubblicana, per la limitazione di quelle percepite come intollerabili ingerenze di “burocrati non eletti” nelle scelte politiche degli Usa.
È una sentenza di 89 pagine, fra preambolo e opinioni di maggioranza e minoranza, di cui è facile intuire la portata storica, anche per le possibili ripercussioni in altri ambiti oltre quello energetico e ambientale, di cui rimangono comunque da vedere gli effetti di lungo termine.
La questione più ampia riguarda cioè la capacità delle agenzie federali Usa di regolamentare non solo in tema ambientale, ma qualsiasi cosa – lavoro, diritti umani, trasporti, ecc. Si tratta comunque di un testo molto articolato, leggibile come sempre in questi casi a vari livelli – procedurali, politici, storici, oltre che legali – il cui significato e le cui ramificazioni di lungo termine sono difficili da divinare in poche ore.
Forma e sostanza
Sicuramente si tratta di un colpo doloroso per il senso di urgenza che caratterizza il percorso di decarbonizzazione. La sentenza, infatti, subordina il “cosa fare” in tema di decarbonizzazione al “come farlo” in termini di procedure.
La Corte suprema Usa ha cioè messo in secondo piano la sostanza scientificamente provata del surriscaldamento dell’atmosfera e il metodo migliore per affrontarlo – la riduzione delle emissioni – ponendo invece in primo piano come proceduralmente le politiche ambientali dovrebbero srotolarsi lungo la cinghia di trasmissione normativa.
Per l’alta corte la forma è insomma molto più sostanziale della sostanza – non una cosa particolarmente sorprendente per un organo giurisdizionale, a dire il vero. E poco importa, sempre da un punto di vista squisitamente formale, che la sentenza sia kafkaniamente relativa ad un’iniziativa del 2015 di Barak Obama, mai ufficialmente entrata in vigore perché prima invischiata in contenziosi legali e poi sostituita da un’altra iniziativa di Donald Trump.
Si parla cioè di una sentenza scaturita dai contenziosi di cui sopra, che esautora l’Epa di un’autorità mai formalmente acquisita, con l’effetto però che comunque sia l’autorità effettiva dell’Epa ne risulti più limitata di prima, quanto appunto a indirizzare le scelte delle aziende per limitare le emissioni di CO2.
Dal punto di vista di chi guarda con sempre maggiore preoccupazione alla salute del pianeta, è un po’ come se a un infermiere che ha fatto una tracheotomia d’urgenza per salvare un paziente che sta soffocando gli venisse detto che non può più prendere questo tipo di iniziativa perché un medico deve prima dare ufficialmente il permesso, anche se non esisteva comunque una regola che indicasse nella tracheotomia il metodo da seguire e subordinasse la decisione dell’infermiere a quella del medico. È un paragone tagliato con l’accetta, ma serve forse a spiegare il senso paradossale della sentenza.
Breve storia
Da un punto di vista storico, va notato che fu la stessa Corte Suprema a imporre praticamente all’Epa di agire contro il cambiamento climatico durante la seconda amministrazione Bush. Anni dopo, l’Epa dell’amministrazione Obama emanò il Clean Power Plan, o Piano per l’energia pulita (CPP).
Il CPP richiedeva agli Stati di presentare piani per ridurre le emissioni di gas serra attraverso una combinazione di combustione del carbone più pulita, passaggio dal carbone al gas naturale e spostamento della produzione di energia da combustibili fossili come il carbone e il gas a fonti rinnovabili come l’eolico e il fotovoltaico.
Furono così previste regolamentazioni sia a livello di singole centrali elettriche sia a livello di rete elettrica nel suo complesso, ed è sulla base di queste misure “sostanziali” che poi l’Epa cominciò ad operare, nonostante la parentesi di iniziative più annacquate introdotte da Trump. Questo, fino a ieri, quando la Corte Suprema ha ritenuto che l’Epa, sulla sola base del Clean Air Act, in vigore dal 1970 ed emendato varie volte, non abbia un mandato da parte del Congresso per regolamentare direttamente il settore energetico.
Secondo l’alta corte, si tratta di un’azione normativa “importante” che il Congresso non ha espressamente autorizzato.
E ora?
Come accennato, è un colpo non da poco per le sorti della decarbonizzazione negli Usa, e quindi nel mondo, ma non c’è ragione di perdere le speranze, ha detto Mary Anne Hitt, strategista climatica ed ex responsabile per oltre un decennio del Sierra Club sulla normativa climatica.
“Una volta che l’Epa ritiene che un inquinante danneggi la popolazione, come ha fatto per i gas serra nel 2009 sulla base dei precedenti della Corte Suprema, è tenuta comunque a stabilire limiti di inquinamento per gli impianti esistenti ai sensi della sezione 111(d) del Clean Air Act, cosa che ha fatto nel 2015 e che è culminata in questo caso”, ha spiegato.
Per quanto riguarda la sentenza vera e propria, che stiamo ancora digerendo, abbiamo evitato alcuni degli scenari peggiori, ovvero che la corte togliesse del tutto questa autorità all’Epa, o che si spingesse oltre per sventrare altre regole fondamentali in materia di salute pubblica e inquinamento, ha continuato.
Ma la cosa più importante è che “le centrali elettriche a carbone, e sempre più a gas, non possono competere con le energie rinnovabili e la sentenza della Corte Suprema non cambierà la situazione. L’80% delle centrali a carbone statunitensi sono già più costose da gestire rispetto alla sostituzione con energie rinnovabili locali. Le aziende elettriche continuano ad annunciare il ritiro del carbone o falliscono. Nessuna di queste decisioni è stata dettata da normative sui gas serra. La pressione esercitata dal mercato continuerà”, ha affermato.
“La portata limitata di questa sentenza evita la maggior parte di ciò che si temeva”, ha detto Robert Rhode, responsabile scientifico di Berkeley Earth, un’organizzazione di ricerca no profit della California, specializzata in analisi indipendenti delle variazioni della temperatura media globale dal 2013.
La Corte Suprema è su una china molto rischiosa, ha tolto all’Epa un importante strumento regolatorio di tutela del clima e si è pericolosamente addentrata sul territorio scivoloso di arrogarsi essa stessa, in quanto organismo non eletto, la scelta politica di decidere quali regole per l’aria, l’acqua e il clima siano andate oltre il limite del mandato congressuale, cassandole.
Ma i progressi delle energie rinnovabili e la diffusione della coscienza ambientale e climatica sono tali che, se non altro, la Corte Suprema Usa non ha ritenuto di poter emettere una sentenza di portata ancora più ampia. Non ha proibito all’Epa di regolamentare altri tipi di gas serra o inquinanti, né ha attaccato il Clean Air Act in quanto tale o la prerogativa dell’Epa di regolamentare in sé stessa.
Certo è, anche a voler guardare al bicchiere mezzo pieno, anche se le dinamiche economiche a favore della decarbonizzazione sono impetuose, che altri colpi come questo potrebbero rendere la transizione energetica ancora più complicata di quanto non sia già.
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