Cop26, quel bagno di realismo che finora è mancato

La questione climatica tra disinteresse dei cittadini e assenza nell’agenda politica. Ora serve una forte pressione elettorale per costringere i governi dei paesi democratici a considerare prioritarie le politiche di decarbonizzazione, ma che siano socialmente inclusive.

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Quanto è emerso nei primi sei giorni di Cop26 fornisce sufficienti indicazioni sulle risposte che la Conferenza potrà dare all’obiettivo di dare seguito all’Accordo di Parigi del 2015, assumendo decisioni in grado di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi, grazie al raggiungimento della neutralità carbonica entro il 2050.

In realtà, già l’assenza del leader cinese Xi Jinping e di Putin e il risultato deludente sul clima del G20 romano non rappresentavano certo un buon viatico.

Non meno preoccupante, anche se sottovalutata o addirittura ignorata, è stata la presenza di un presidente americano con le mani parzialmente legate dal compromesso sulla sua agenda climatica, che ha dovuto accettare per vincere l’opposizione di Manchin, un senatore democratico il cui voto era decisivo.

In un Senato dove repubblicani e democratici hanno entrambi 50 seggi, spesso le proposte di Biden possono infatti passare solo se i democratici votano compatti e alla fine prevale il voto del presidente dell’assemblea, che ope legis è la vice di Biden, Kamala Harris.

In questo caso si è trattato di un compromesso molto al ribasso, con lo stanziamento inizialmente previsto (1.500 mld $) dimezzato (555 mld $) e utilizzabile esclusivamente per sgravi fiscali ai consumatori e alle imprese, mentre la proposta iniziale prevedeva anche cospicui interventi per il “clean electricity plan”, cancellati nella legge approvata. Esclusione che spiega perché, oltre a Cina e India, anche gli Stati Uniti non abbiano sottoscritto il patto per chiudere le centrali a carbone esistenti entro 10-20 anni e non costruirne di nuove.

Infine, mentre si trovava a Glasgow, la credibilità di Biden è stata ulteriormente indebolita dai risultati delle elezioni in Georgia, dove, contro le previsioni, il candidato democratico a governatore dello Stato ha subìto una sonora sconfitta, mentre nel New Jersey il suo omologo ha vinto per una manciata di voti (1.285.203 contro 1.219.828). Tra meno di un anno (8 novembre 2022), gli elettori americani saranno chiamati a rinnovare per intero la Camera dei rappresentanti e per un terzo il Senato. Se il trend attuale sarà confermato, i democratici perderanno il controllo del secondo e probabilmente anche della prima, rendendo plausibile il ritorno di un repubblicano alla Casa Bianca nel 2024.

Stando così le cose, quale credibilità può avere avuto l’affermazione di Biden a Glasgow – l’America è tornata ad onorare l’accordo di Parigi?

Contemporaneamente, Cina e Russia hanno riempito subito di significato l’assenza dei loro leader, posticipando al 2060 il raggiungimento della neutralità carbonica, oltre tutto senza indicare impegni concreti su come realizzarla, mentre l’India l’ha addirittura spostata al 2070, condizionandola al ricevimento di cospicui aiuti finanziari.

Per di più, la decisione di tagliare del 30% le emissioni di metano entro il 2030, sottoscritta da oltre cento paesi, non ha ricevuto l’assenso di Cina, India e Russia, mentre la firma di Bolsonaro all’obiettivo di mettere fine alla deforestazione entro la stessa data è prova manifesta dell’assenza, nella dichiarazione, di impegni cogenti.

Poiché nel 2019, secondo l’analisi di Rhodium Group, Cina, India e Russia erano complessivamente responsabili del 37% delle emissioni globali, non stupisce che già il 4 novembre Fatih Birol, Executive Director della Iea, abbia rilasciato una dichiarazione, in cui afferma che «our updated analysis of these new targets – on top of all of those made previously – shows that if they are met in full and on time, they would be enough to hold the rise in global temperatures to 1.8 °C by the end of the century».

Secondo Birol, se quanto dichiarato a Glasgow sarà realizzato interamente e alle scadenze previste, non rispetteremo l’obiettivo concordato nel 2015 a Parigi: limitare il riscaldamento globale “well below 2 °C” e impegnarsi per non superare 1.5 °C.

Prendere atto di questo dato di fatto rappresenta il necessario bagno di realismo per non replicare l’errore commesso da quanti, troppi, salutarono come un successo l’accordo raggiunto sei anni fa a Parigi, mentre, come scrissi allora su questo portale, “un accordo andava raggiunto a tutti i costi e infatti è stato trovato, ma, pur con questa premessa, sono fra quanti considerano molto più vuoto che pieno il bicchiere che l’accordo di Parigi ha lasciato sul tavolo”.

Anche la Cop26 non sarà un bicchiere vuoto, ma, pur valorizzandone i risultati positivi, dobbiamo interrogarci sul perché il numero crescente di cittadini consapevoli dell’esistenza della crisi climatica non la consideri un’emergenza tale da rendere prioritarie decisioni politiche per contrastarla con adeguate misure di mitigazione e adattamento (finora insufficienti le prime, scarse le seconde), come conferma un altro dato di fatto.

Nelle consultazioni politiche del XXI secolo solo una volta la questione climatica è stata presente in misura significativa nel dibattito tra i partiti: è accaduto nelle ultime elezioni tedesche, per la presenza dei Verdi.

Il loro programma politico è caratterizzato da indicazioni concrete per favorire uno sviluppo economico inclusivo come condizione necessaria per renderlo ambientalmente sostenibile. In tal modo hanno acquisito un consenso elettorale significativo, diversamente da quanto sta avvenendo in altri paesi, dove l’allargamento del divario economico tra gli “happy few” e il resto dei cittadini ha creato un diffuso disinteresse per ogni obiettivo estraneo alla difesa del proprio status sociale ed economico e un’altrettanta diffusa insofferenza verso le élite, tra cui sono inclusi anche i movimenti ambientalisti, troppo concentrati solo sui temi della sostenibilità ambientale.

L’unica risposta potenzialmente vincente ai non entusiasmanti risultati della Cop26 è replicare dovunque il caso tedesco, in modo da esercitare una pressione elettorale sufficiente a costringere i governi dei paesi democratici a considerare prioritarie politiche di decarbonizzazione socialmente inclusive che, per essere efficaci, devono aiutare, non solo a parole, i paesi meno sviluppati a procedere nella medesima direzione. In caso contrario le nazioni più ricche prima o poi sarebbero travolte da immigrazioni incontrollabili, causate dalla devastazione climatica.

Dato che anche nei paesi non democratici per sopravvivere a lungo i governi devono tenere conto del consenso popolare, la dimostrazione del successo ottenuto in quelli democratici con una positiva integrazione tra politiche sociali, economiche e climatiche non potrà non influenzare le loro scelte. È quanto ha fatto negli ultimi decenni il governo di Pechino, imitando l’unico modello di sviluppo finora disponibile.

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