Consumi e impatti dei dissalatori dell’acqua di mare, anche abbinati al solare

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Per affrontare la siccità in Italia si torna a parlare di mega impianti di desalinizzazione con i loro enormi costi energetici e ambientali. Poi ci sono le tecnologie di dissalazione che si abbinano con l'energia solare.

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L’Italia del centro nord è nel bel mezzo di una siccità storica: fino a pochi giorni fa il Po era a livelli di portata estivi, il cuneo salino aveva risalito il suo delta ad una quota mai vista in precedenza, i comuni piemontesi venivano riforniti di acqua con autobotti dopo che le loro sorgenti si erano seccate e gli agricoltori padani avevano abbandonato in massa le colture più “assetate”, come riso e mais.

Adesso la situazione è stata un po’ alleviata dalle ritardatarie piogge di metà maggio, ma secondo gli esperti ci vorrebbero settimane di precipitazioni per ritornare alla normalità, dopo più di un anno di scarsità di pioggia.

Nella stessa situazione è peraltro un po’ tutta l’Europa Occidentale. I satelliti Grace che misurano le minime variazioni di gravità del nostro pianeta hanno rilevato un disseccamento del suolo fra Germania e Francia, mentre in Spagna le riserve idriche sono dimezzate rispetto alle medie del periodo.

Come era facile prevedere, alcuni politici dell’attuale maggioranza di governo, invece di lanciare l’allarme sul cambiamento climatico e sulle azioni da intraprendere per mitigarlo sono balzati sul carro della siccità per proporre l’ennesima megasoluzione hi-cost: dotare l’Italia di dissalatori dell’acqua di mare “come fa Israele”, che ricava dal mare un terzo della sua acqua.

A tal proposito, con il nuovo dl Siccità, attualmente in  fase di conversione in legge, si punta a snellire le procedure per realizzare questi impianti, ad esempio eliminando l’assoggettamento alla VIA per  i progetti con capacità  sotto ai 200 litri al secondo.

Forse chi crede che in Italia il problema della siccità si risolva coi dissalatori non si è mai recato in Israele. Scoprirebbe così che si tratta di un’area semidesertica densamente popolata, in cui non ci sono più sorgenti idriche da sfruttare per dare da bere a tutti, e quindi non resta che dissalare l’acqua di mare.

L’Italia, con quasi 900 mm di media di pioggia annua, è uno dei paesi mediterranei più piovosi (Israele si ferma a 400 mm/anno) come attesta la rigogliosa vegetazione che la ricopre (nella foto l’impiando di dissalazione di Hadera in Israele).

Piuttosto che aggiungere nuovi impianti lungo le nostre coste già ipercementificate o da preservare, sarebbe meglio pensare a interventi low-tech, che anche se non si prestano bene per il taglio dei nastri come un megadissalatore, sarebbero forse più utili.

Si potrebbe puntare sulla sempre invocata, e mai attuata, riparazione delle condotte idriche, che in certe aree perdono più della metà dell’acqua che trasportano, alla costruzione di una rete di piccoli bacini per intercettare la pioggia, proposta dall’Associazione dei Consorzi di Bonifica al Senato (che denuncia anche l’assurdità dell’ipotesi dissalatori), così da farla lentamente filtrare nel sottosuolo per la ricarica delle falde.

Bacini che potrebbero anche servire per l’accumulo di elettricità con i pompaggi e per ospitare impianti di fotovoltaico galleggiante.

A rendere ancora meno logica l’idea di costruire impianti di dissalazione in Italia è anche il loro impatto ambientale e climatico.

Il primo è causato soprattutto dal rilascio in mare delle cosiddette “salamoie”, cioè le soluzioni concentrate di sale, che restano dopo aver estratto acqua dolce dall’acqua marina, che per l’Onu non sono certo un toccasana per gli ecosistemi acquatici, e da qui l’invito agli Stati di limitare l’uso di questa soluzione.

Il loro impatto climatico dipende soprattutto dalla grande quantità di energia richiesta dalla dissalazione.

I metodi per separare l’acqua dolce da quella di mare sono molti, da varie forme di distillazione, anche sottovuoto, fino al sistema più usato oggi, l’osmosi inversa, che consiste nel pompare acqua in pressione in tubi lungo la cui superficie è presente una membrana che fa passare l’acqua ma non i sali, e sul cui lato opposto c’è acqua dolce: normalmente sarebbe l’acqua dolce a muoversi verso quella salata, ma la pressione inverte la direzione e l’acqua di mare perde così il suo liquido a favore di quella dolce, diventando una densa e tossica salamoia.

Il consumo energetico medio dell’osmosi inversa si aggira sui 3 kWh/metro cubo di acqua dolce ottenuta, un enorme miglioramento rispetto alla distillazione, che se ne porta via dai 10 ai 30 kWh.

Visti i volumi di acqua necessari a un paese ricco e industrializzato, però, anche solo 3 kWh/mc comportano consumi energetici enormi: l’Italia preleva da fiumi e falde 33 miliardi di mc l’anno, 7 mld vengono sprecati per le famose perdite nei condotti, e di quel che resta 14 mld vanno all’agricoltura, 7 all’industria e 5, potabilizzati, all’uso domestico.

Volessimo ottenere anche solo 1 mld di mc di acqua dolce l’anno con l’osmosi inversa, servirebbero almeno 3 TWh di elettricità, oltre l’1% della produzione nazionale.

Figuriamoci se volessimo coprire con questo metodo una parte significativa dei consumi urbani o agricoli: usando le fonti attuali, vedremmo schizzare in alto le emissioni di CO2 del nostro paese che invece devono scendere continuamente, fino ad annullarsi nel 2050.

“Per fortuna l’osmosi inversa è una tecnica che si presta molto bene accoppiata con il fotovoltaico”, ci dice l’ingegnere Giampaolo Manzolini, ingegnere di sistemi energetici del Politecnico di Milano, che con partner europei, arabi e americani, sta portando avanti il progetto Desolinitation, volto ad abbinare il solare ad impianti di dissalazione.

“Nei paesi del Golfo, per esempio, dove gran parte dell’acqua dolce arriva dal trattamento di quella di mare, tutti i nuovi impianti vengono costruiti con centrali fotovoltaiche dedicate. La dissalazione, inoltre, si presta bene ad assorbire le fluttuazioni nella produzione elettrica da sole e vento: quando le fonti sono abbondanti si riempiono i serbatoi, quando calano si attinge a quelle riserve in attesa che vento e sole tornino ai livelli necessari. L’acqua dissalata, in pratica, fa da accumulatore dell’energia solare ed eolica”, spiega Manzolini.

È chiaro che se l’Italia volesse intraprendere la strada della dissalazione, dovrebbe, per rispettare gli impegni climatici, costruire accanto a ogni impianto una distesa di pannelli FV, sufficiente a fornirgli l’energia necessaria, così che l’acqua fornita sia veramente verde e non grigia di CO2 fossile: un incubo per i nuovi fan della dissalazione, che in genere sembrano anche quelli più ostili alle rinnovabili.

“Però con il nostro progetto Desolinitation stiamo perfezionando un nuovo metodo di dissalazione che utilizza ancora meno energia, e solo in forma termica di scarto”, precisa Manzolini.

“In pratica – spiega l’esperto del Polimi – si tratta di mettere a contatto attraverso una speciale membrana, l’acqua di mare con una soluzione di polimeri simili al collagene: in questo caso l’acqua fluisce spontaneamente da quella di mare alla soluzione. L’energia serve solo in un secondo tempo per separare l’acqua dolce dal collagene, scaldandolo a circa 60 °C. Il metodo è molto più efficiente di quello ad osmosi inversa, producendo salamoie molto più concentrate, e quindi più facili da usare come fonte di sali, senza ributtarle in mare, e richiede consumi di energia molto più bassi”.

I ricercatori stanno ora costruendo un primo prototipo in Arabia Saudita.

“L’idea è quella di usare come fonte di calore lo scarto termico di impianti solari termodinamici, ottenendo quindi da essi prima energia elettrica e poi acqua potabile, senza consumo di fonti fossili; l’ideale in quei paesi desertici. Entro il 2025 avremo un primo impianto di dissalazione di questo tipo che userà 20 MW di calore di scarto industriale, in attesa che arrivino i fondi per costruire anche la relativa centrale solare termodinamica”, dice il professore.

Per l’Italia il sistema non è però molto adatto in quanti gli impianti solari termodinamici richiedono un meteo costantemente soleggiato e vasti terreni piani dove costruirli.

“Tuttavia, qualche impianto lo potremmo fare anche noi, usando per esempio calore di scarto di processi industriali o di centrali elettriche. In alcuni casi si potrebbe alleviare così la carenza d’acqua dolce di aree particolarmente colpite dalla siccità, anche se, certo, prima di pensare alla dissalazione, da noi sarebbe bene provare prima a risolvere i problemi idrici con interventi molto più semplici” conclude Manzolini.

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