Chi sono i rifugiati ambientali e quali scenari si prospettano

Uno degli effetti del global warming è la migrazione di milioni di persone ogni anno. Il problema è come dare protezione a questo nuovo tipo di rifugiati, considerando che non hanno ancora alcun riconoscimento legale.

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L’articolo è stato pubblicato sul n.2/2018 della rivista QualEnergia

Cambiamenti climatici e migrazioni”, questo è il tema che il Comitato Nazionale per l’Educazione alla Sostenibilità (Cnes) della Commissione Nazionale Italiana dell’Unesco ha lanciato per la campagna 2017/2018 e, su questo tema, ha aperto un concorso tra le scuole italiane, i cui vincitori – niente più che una targa premio – saranno proclamati il prossimo novembre.

Rispetto a una tale sollecitazione su una questione così importante, soprattutto per il nostro Paese, pensiamo utile che anche dalle pagine di QualEnergia arrivi un contributo d’informazione e riflessione.

Sui cambiamenti climatici, sul passaggio attuale dalla stabilità all’instabilità climatica e sulle sue conseguenze siamo intervenuti molte volte, mai troppe e, a proposito di educazione, ci rivolgiamo al Cnes e alla Commissione tutta perché si adoperino al fine di superare la visione “emergenziale” con la quale in concreto sono trattati e affrontati i problemi che derivano dall’instabilità climatica.

«I buoi sono scappati dalla stalla», abbiamo più volte usato questa metafora bovina per sottolineare come gli stravolgimenti che in tutte le parti del mondo caratterizzano la vicenda climatica costituiscano lo scenario presente e delle decadi a venire; necessaria quindi un’education generale – cittadini, amministratori, enti pubblici, compagnie private e istituzioni – perché quel che accade non sia ogni volta qualcosa di inaspettato che coglie all’improvviso, ma perché ci sia un’adeguata preparazione da parte di tutti i soggetti coinvolti, cioè noi tutti, per prevedere al meglio e far fronte efficacemente agli eventi più dirompenti.

Quest’opera di education dovrebbe porre in primo piano la scuola di “ogni ordine e grado”, superando i ritardi e l’impostazione burocratica e rigida dei programmi ministeriali, ancora lontani dai criteri di multidisciplinarità e interdisciplinarità indispensabili per affrontare la sfida del “global warming” e una cultura accademica assai più pronta a elaborare didattica e ricerca a sostegno di quella sfida.

E, soprattutto, un impegno della politica per salvaguardare le troppe situazioni nelle quali la fragilità del suolo, l’assente o carente gestione del patrimonio idrico, l’abusivismo edilizio, il consumo di territorio e la sua cementificazione trasformano in tragedia gli eventi meteorologici estremi, il protrarsi della siccità a danno delle colture agricole e l’estendersi delle aree di aridità.

Della serie: basta con i torrentelli “intubati” nel cemento che straripano e inondano con piene omicide; basta con frane gigantesche che seppelliscono interi paesi e strade; basta con opere pubbliche che mangiano territorio, utili solo per “fare affari”; basta con un sistema nazionale di distribuzione dell’acqua che è un colabrodo, col 40% di perdite. E via elencando. Non lo possiamo permettere, non solo per il danno sociale ed economico, conclamato e verificabile nell’arco di decenni di irresponsabilità, ma perché ci stiamo riducendo alla soglia al di sotto della quale sarà possibile solo l’abbandono.

Su scala Mondo l’allarme per lo stravolgimento dell’ambiente registra altri gravi passaggi negativi.

Basta citare, a tal proposito di land grabbing, la volontà del presidente della Repubblica del Brasile, espressa l’estate scorsa, di rendere disponibili alla speculazione privata 47mila kmq di foresta amazzonica.

Sul piano più strettamente climatologico non vale neanche più elencare puntigliosamente l’infittirsi di eventi meteorologici estremi, basta segnalare il distaccarsi dall’Antartide, il 12 luglio 2017, di un iceberg, Larsen C, che con i suoi 5.800 kmq è più grande della Liguria; o l’estendersi della siccità e delle aree aride (Global Drought Portal Data).

È quest’ultimo aspetto – la siccità che fa strage dei raccolti necessari per sostenere la richiesta di cibo, l’invivibilità di zone sempre più aride – che si connette in molti casi direttamente con le migrazioni.

Per esempio, il cambiamento climatico ha giocato un ruolo importante nell’accendere il conflitto in Siria, dove il susseguirsi di siccità tra il 2006 e il 2011 ha spinto un milione e mezzo di persone, prive di cibo, acqua o lavoro, a spostarsi verso le città.

L’Environmental Justice Foundation (Ejf ), un’associazione internazionale che ha base nel Regno Unito con la mission di “proteggere la gente e il Pianeta”, ha stimato nel 2016 che 45 persone al minuto sono state obbligate a lasciare le loro case e le loro comunità a causa dei cambiamenti climatici.

«È questo imprevedibile ingrediente che, aggiunto alle tensioni sociali, politiche ed economiche esistenti, ha il potenziale di accendere violenza e conflitto con disastrose conseguenze», ha rilevato Steve Trent, direttore operativo di Ejf (The Guardian, International edition, 2 Nov. 2017).

Ma chi sono i “rifugiati ambientali”?

Il termine fu coniato nel 1976 da Lester Brown, leader del Worldwatch Institute, per mettere ordine nella proliferazione dell’uso di termini simili.

Il rapporto Undp per il periodo 2000-2004 valutava che di 262 milioni di persone colpite da disastri climatici, il 98% apparteneva ai Paesi in via di sviluppo; 521 milioni a rischio inondazioni, 330 milioni a rischio di spostamento definitivo dalla loro residenza; 344 milioni a rischio di cicloni tropicali e uragani; 130 milioni sotto la minaccia di ondate di siccità (The United Nations Development Program Report, 2008).

L’Organizzazione Internazionale per la Migrazione (Iom) ha proposto questa definizione per le persone che migrano per motivi ambientali: «Sono migranti ambientali quelle persone o gruppi di persone che, per stringenti ragioni di cambiamenti sia improvvisi sia graduali, che colpiscono negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le loro case, temporaneamente o definitivamente e a spostarsi sia nel loro paese sia all’estero».

Norman Myers, uno dei più noti esperti in questo campo, ne ha scelta una diversa nella quale l’abbandono delle proprie case avvenga «nella speranza di un futuro prevedibile» (cfr Environmental refugees: an emergent security issue, 2005.).

Altri studiosi hanno cercato di associare alla definizione il come dare protezione a questo nuovo tipo di rifugiati, ma il problema vero è che i rifugiati ambientali non esistono. Non hanno un riconoscimento legale né in forza della Convenzione di Ginevra (1951) né in virtù del protocollo aggiuntivo del 1967.

Intanto il “Global Risk Report 2017” del World Economic Forum denuncia come “centrale” proprio un gruppo di rischi ambientali, tutti valutati come entità sopra la media sia riguardo all’impatto sia alla probabilità di accadimento. E pone al primo posto il rischio del global warming, stimando che nel 2015 sia stato la causa della migrazione di oltre 60 milioni di persone.

«I rischi dovuti ai disastri ambientali saranno sempre più la causa prima di spostamenti delle popolazioni, più grande dei conflitti». E già così: l’Inform Risk Index ha stimato che nel 2016 i migranti originati da cause ambientali sono stati 24,2 milioni a fronte dei 6,9 milioni per i conflitti; una distribuzione di probabilità più spiccata per il rischio conflitti, ma più ampia per quello ambientale.

Per il futuro le previsioni di vari studiosi parlano di 250 milioni di rifugiati ambientali entro il 2050, mentre Christian Aid, una ong operante nel settore, ne fornisce una più pessimistica: un miliardo di persone a causa d’inondazioni, sfruttamento del suolo, attività minerarie e nuovi insediamenti urbani e industriali.

Il V Rapporto dell’Ipcc individua quali sono i maggiori rischi connessi ai cambiamenti climatici nelle sette macro-aree geografiche in cui suddivide il Pianeta:

  • America del Nord: fusione dei ghiacciai e crescenti ondate di calore che invadono le maggiori aree metropolitane;
  • America Latina: perdita della foresta pluviale amazonica rimpiazzata dalla savana, perdita della biodiversità, riduzione dell’accesso all’acqua potabile;
  • Europa: inondazioni, erosioni dovute ad alluvioni e tempeste, sparizione dei ghiacciai montani, perdita della biodiversità, riduzioni nella produzione di grano;
  • Bacino Mediterraneo: scarsità d’acqua e desertificazione di aree sempre più ampie con impatti crescenti sull’agricoltura;
  • Africa: al Nord e nel Sahel la siccità congiunta alla scarsità d’acqua e alla degradazione della terra potrebbero portare a una perdita del 75% delle terre irrigue non vendute. L’innalzamento del livello del mare e la salinizzazione del terreno agricolo mettono a rischio la possibilità di produzioni agricole in tutto il delta del Nilo. Il Corno d’Africa sarà ulteriormente flagellato dall’aumento delle temperature con un forte impatto sui conflitti, la degradazione ambientale e le dinamiche migratorie. Nel Sud del Continente aumenterà la siccità con una conseguente crisi alimentare;
  • Asia: al Sud, l’innalzamento del livello del mare riguarderà l’habitat del 40% della popolazione dell’area (persone che attualmente vivono entro i 60 km dalla costa). Stress idrologico, crisi alimentare, diffusione di malattie infettive associate al cambiamento climatico, ritiro dei monsoni e scioglimento dei ghiacciai himalayani, colpiranno questa parte del Continente. Nell’Asia Centrale il più grande problema sarà la scarsità d’acqua;
  • Polo Artico: ritiro della calotta polare e aumento della temperatura. La possibilità di raggiungere e sfruttare, in maggior misura di quanto già oggi accade, le massive riserve di idrocarburi presenti nel sottosuolo artico avrà serie implicazioni sul piano della sicurezza internazionale.

Vale la pena rilevare che gli abitanti a rischio dell’area Sud asiatica sono oltre 600 milioni; e l’assoluta necessità che l’area artica sia regolata da una convenzione tra Stati almeno simile a quella vigente per l’Antartide.

Il cambiamento climatico sarà la causa della più grande crisi mondiale di rifugiati, titolava The Guardian a commento dello studio dell’Ejf riportato all’inizio.

Modificare il Trattato di Dublino nel senso di più realistiche politiche d’accoglienza, come richiesto da molti Paesi Ue, Italia in testa, è solo un primo passo ma fare fronte al cambiamento climatico e attuare con determinazione l’Accordo di Parigi devono diventare l’urgenza prioritaria dei massimi decisori politici e dei business leader.

Non è troppo tardi per un’azione decisiva in questo senso ma il cambiamento climatico non aspetta e, come asseriva Stefan Trent: «For climate refugees, tomorrow is too late».

L’articolo è stato pubblicato sul n.2/2018 della rivista bimestrale QualEnergia con il titolo “Cambiamenti climatici e migrazioni”.

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