Bivio post-pandemia: dal rilancio delle politiche pro-clima al rischio di rallentamento

L'emergenza coronavirus potrà portarci decise politiche di transizione ecologica, ma al tempo stesso al rischio di bruschi rallentamenti di questo processo. Anche sul fronte dei negoziati climatici si valutano nuove ipotesi su cui basare gli accordi.

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Le evoluzioni post Covid saranno influenzate da forze contrastanti. Da un lato si punterà sull’accelerazione della transizione ecologica delle economie, cogliendo lo shock della nostra fragilità come sprone per prepararsi ad affrontare un’altra emergenza globale, quella climatica.

In Europa, il lancio del Green Deal e la definizione di uno scenario di rapida decarbonizzazione (la neutralità climatica al 2050) rappresentano un’importante griglia di riferimento per molti settori.

Ma stanno già emergendo posizioni difensive che, proprio in ragione della emergenza in atto, puntano a consolidare interessi economici perdenti.

Analizzando le possibili dinamiche nei settori dei trasporti, dell’energia, delle industrie si evidenziano le notevoli potenzialità di un rilancio di soluzioni ambientalmente e socialmente sostenibili, ma anche il rischio di un forte rallentamento delle trasformazioni.

Viste anche le preoccupazioni sulle interazioni inquinamento-Covid, dovremo accelerare sulla mobilità elettrica, ma c’è chi, come Paolo Scuderi, presidente di Anfia, l’associazione nazionale dell’industria automobilistica, vorrebbe invece ritardare di 5-10 anni la sua diffusione.

Dovremo inoltre estendere lo smart working, considerare una probabile riduzione strutturale del traffico aereo e un calo transitorio del trasporto pubblico; dovremo infine ampliare la mobilità ciclabile.

In campo energetico l’emergenza Covid si è intrecciata con la lotta in atto tra i produttori petroliferi, portando a un drastico crollo del prezzo del greggio, temperato dall’accordo in extremis dei produttori che hanno accettato di tagliare un decimo la produzione mondiale.

Con quali conseguenze? Da un lato la diffusione delle fonti rinnovabili e della mobilità elettrica potrebbe venire rallentata. Dall’altro l’approssimarsi del picco della domanda di petrolio (secondo alcuni già raggiunta lo scorso gennaio), rende insicuri gli investimenti in nuovi giacimenti e stimola il dirottamento di enormi risorse dal mondo dei fossili alle tecnologie vincenti in un mondo low carbon, decentrato e più resiliente.

Un’ultima riflessione riguarda la fragilità delle catene industriali lunghe, figlie della globalizzazione, che potrebbe innescare un fenomeno di “reshoring”, cioè di ritorno di attività produttive dall’Asia verso l’Europa (e Usa).

Ma la vera sfida nel mondo industriale riguarderà la capacità di utilizzare questo shock per accelerare le trasformazioni nell’ottica dell’uscita dai fossili e della circolarità dei flussi. Alcuni imprenditori sembrano averlo capito. Secondo Andrea Illy, ad esempio, “la decarbonizzazione è la madre di tutte le cause. Se non ricreiamo l’equilibrio tra noi e l’ecosistema in cui viviamo, di crisi gravissime ne vedremo una dopo l’altra”.

E, a proposito di crisi, saranno molto importanti le riflessioni e le evoluzioni dei prossimi 20 mesi sul versante climatico.

Lo spostamento al 2021 della Conferenza sul clima, la Cop26, deve infatti rappresentare l’occasione per un rilancio dell’impegno abbinando la spinta a nuovi stili di vita ad un cambiamento delle priorità e del funzionamento del modello economico neoliberista.

La crisi finanziaria del 2008-9 aveva provocato una riduzione annua delle emissioni dell’1,8% per poi vedere un rimbalzo del 6% nel 2010. Quest’anno, travolti dall’arresto delle attività dovuto al virus, il calo potrebbe arrivare al 4-5%.

C’è un dato che fa riflettere profondamente. Questa riduzione rappresenterebbe infatti un valore intermedio tra il taglio annuo necessario per stare sotto i  2 °C e quello per stare sotto 1,5 °C. Dovremo quindi riuscire ad avviare politiche, misure, cambi degli stili di vita in grado di ridurre, questa volta virtuosamente, le emissioni annue di un’entità almeno uguale a quella che si profila per il 2020.

Rivedere gli Accordi sul clima?

Molti paesi, a partire dall’Europa, hanno deciso di alzare i propri obbiettivi rispetto a quelli presentati a Parigi.

Ma c’è chi di fronte all’aggravarsi della crisi, mette in discussione l’impostazione stessa dei vari accordi, Kyoto prima e Parigi poi. È un dato di fatto che nell’ultimo ventennio le emissioni sono cresciute mediamente del 2%/anno, mentre per raggiungere gli obbiettivi di Parigi occorrerebbero riduzioni annue del 3-7%.

Di fronte alla debolezza dell’eco-diplomazia, si potrebbero tentare strade diverse.

Un’ipotesi suggestiva viene presentata da William Nordhaus, premio Nobel per l’economia del 2018, sul numero di maggio-giugno 2020 di Foreign Affairs.

Secondo Nordhaus, la debolezza degli Accordi sul clima deriva dalla mancanza di sanzioni né per i paesi che non raggiungono i propri obbiettivi, né di penalizzazione per quelli che restano fuori dagli accordi.

Qual è dunque la sua proposta?

Rendere interessante la partecipazione al “Club” dei paesi impegnati nello sforzo di riduzione delle emissioni grazie all’introduzione di due semplici principi. Una carbon tax uguale per tutti i paesi aderenti al Club e l’introduzione di una tassa per i prodotti provenienti dai paesi fuori dal Club. Non una “border carbon tax”, giudicata troppo difficile da calcolare, ma banalmente una tassa sul valore dei beni importati.

La combinazione di questi strumenti renderebbe più interessante essere ammessi all’interno del Club che rimanerne fuori. Naturalmente sia la carbon tax che la tassa sulle importazioni andrebbero ben bilanciate in modo da favorire la rapida riduzione delle emissioni e da scoraggiare i paesi che rimangono fuori.

Un Trump qualsiasi ci penserebbe due volte ad uscire dal Club.

In realtà, vanno fatte alcune precisazioni. Delle sanzioni, leggerissime, erano state pensate nel Protocollo di Kyoto per i paesi inadempienti. E, d’altra parte, va riconosciuto che nell’ambito dell’Accordo di Parigi alcuni Governi hanno adottato politiche coraggiose. Basta pensare alle decisioni di Europa e Nuova Zelanda di divenire “carbon neutral” al 2050.

Peraltro, la rimessa in discussione di un sistema multilaterale articolatosi nell’arco di un quarto di secolo (la Cop1 di Berlino è del 1995) non sarebbe un’operazione semplice.

Certamente la necessità di accelerare la riduzione delle emissioni a livello globale impone però una riflessione di fondo anche sulle modalità di risposta della comunità internazionale e lo shock del Covid-19 potrebbe determinare una attenta riflessione su obbiettivi e strumenti.

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