Bill Gates e il clima: soluzioni e processi decisionali ambigui, scontati, ma anche interessanti

Dal saggio “Clima. Come evitare un disastro” del fondatore di Microsoft cerchiamo di evidenziare in cosa si differenzia il suo piano da quelli di altri esperti e analisti di settore.

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In questi anni abbiamo letto fiumi di ricerche e proposte su come decarbonizzare l’economia.

In genere questi interventi arrivavano da climatologi o ingegneri dell’energia. Ora è il turno dei miliardari, anzi di un notissimo ipermiliardario americano, Bill Gates, fondatore di Microsoft, che ha abbandonato nel 2008 per occuparsi di filantropia su grande scala con la Fondazione Bill & Melinda Gates, occupandosi di progetti per la salute e lo sviluppo nei paesi poveri.

Da qualche anno Gates ha iniziato a rendersi conto dell’impatto che il cambiamento climatico stava avendo nei paesi che la sua fondazione cercava di aiutare, e così ha studiato a fondo il problema, con l’aiuto di una legione di esperti, e alla fine ha condensato quanto ritiene si debba fare nel libro “Clima. Come evitare un disastro”, pubblicato in Italia da La Nave di Teseo.

Ne avevamo già parlato nell’articolo “Clima, il ‘manifesto verde’ di Bill Gates“. Ma vediamo adesso in cosa si differenzia questo suo sforzo da quello degli esperti precedenti.

Se gli “esperti” del ramo tendono a concentrarsi sul “quanto serva” per evitare una catastrofe climatica, Gates, da ex imprenditore, punta di più sul “come arrivare a ciò che serve”.

Risulta quindi un po’ vago, e talvolta impreciso, sui mezzi materiali necessari a conseguire l’obbiettivo, ma è molto più creativo e interessante quando parla dei necessari processi decisionali.

Condivisibili o meno che siano le sue conclusioni, comunque, si tratta dei suggerimenti di una persona che ha maturato un’enorme esperienza su come avviare progetti di ricerca e grandi imprese globali, e quindi vanno prese sul serio.

Il libro si articola in 12 capitoli, divisi sostanzialmente in una prima parte volta a spiegare il problema a chi non lo conosce, e che quindi risulterà un po’ scontata a chi se ne occupa già da tempo, e una seconda parte con le proposte riguardanti i rimedi.

Il tutto, ed è un limite, molto centrato sull’esperienza Usa, per cui certe volte si ha la sensazione di una visione poco consapevole di quanto si sia raggiunto già altrove, visto che gli Usa per lunghi periodi non sono stati certo alla testa dell’azione contro il climate change.

I primi tre capitoli del saggio inquadrano il problema climatico, illustrandone bene l’estrema complessità, pericolosità e urgenza, e arrivando alla fine all’unica conclusione ragionevole: non c’è più spazio per compromessi e mezze misure, si possono solo eliminare tutte le emissioni di CO2 fossile.

E già qui introduce i suoi due leitmotiv preferiti.

Il primo è che a salvarci saranno soluzioni ipertecnologiche offerte dalla scienza, non tanto i cambiamenti nel comportamento individuale.  Solo l’high-tech potrà infatti arrivare a quella che lui ritiene sia la taglia minima per progetti climatici degni di essere finanziati: ridurre di almeno 500 milioni di tonnellate annue, sugli oltre 30 miliardi totali, le emissioni.

Il secondo punto è quello dei “Green-premium” (GP) i sovrapprezzi delle tecnologie “verdi”, che oggi le rendono non competitive (con poche eccezioni come pompe di calore o energia solare), e che secondo l’autore sono il maggior ostacolo alla loro diffusione: facciamo quindi ogni sforzo, tecnologico e normativo, per azzerare i GP, e la transizione avverrà spontaneamente e globalmente.

Nei cinque capitoli successivi, Gates affronta poi i cinque settori che più emettono CO2: elettricità, industria, agricoltura, trasporti, climatizzazione.

Per ogni settore Gates propone alla fine alcune tecnologie, secondo lui, rivoluzionarie, che ha avuto modo di esaminare e spesso finanziare. Ci si aspetta chissà cosa, ma francamente si tratta, con poche eccezioni, di soluzioni modeste e già risapute, come gli hamburger vegetariani o la cattura della CO2, oppure di cose che hanno ben poche chance di diventare applicabili nei tempi stretti richiesti, come nuovi tipi di fissione nucleare (un suo pallino).

E ci sono anche dei buchi clamorosi: per esempio quando parla della difficoltà di evitare le emissioni dalla produzione di acciaio, pare non conosca i prototipi, già esistenti, in cui il coke è sostituito dall’idrogeno.

Oppure si dilunga sulle batterie, certo importanti per lo stoccaggio di breve periodo, ma accenna appena ai sistemi che possono coprire l’intermittenza stagionale, come pompaggi e idrogeno. Un modo per “dimostrare” che non potremo fare a meno del suo amato nucleare innovativo.

Nei trasporti, invece si dilunga forse eccessivamente sui combustibili liquidi di sintesi, fatti facendo reagire idrogeno da rinnovabili con CO2 dall’aria, che saranno pure più comodi, usando le infrastrutture esistenti, ma hanno un’efficienza disastrosa nell’uso della preziosa elettricità, soprattutto se bruciati nei motori a scoppio.

Per quanto poi riguarda la limitazione nell’uso, e negli sprechi, dell’energia, la considera solo nel senso di aumentare l’efficienza dei dispositivi e dei comportamenti, come cappotti termici agli edifici o riduzione degli sprechi alimentari. Ma non vuole sentir parlare di limitazione dei consumi, perché, spiega, gran parte del mondo i consumi deve ancora aumentarli, per arrivare a vivere decentemente, ma anche perché chiedere a un turbocapitalista di rinnegare il consumismo sarebbe come chiedere un’abiura al Papa.

Molto più interessanti, sono però i tre capitoli finali.

Il primo è dedicato all’adattamento al clima, e offre numerose esperienze, ricavate dal suo lavoro nei paesi poveri, su quanto i cambiamenti climatici potrebbero essere distruttivi in quelle aree, e cosa si potrebbe fare per aiutare i cittadini a contenere i danni.

Nei successivi, a sorpresa, si scopre invece quanto Gates conti sull’aiuto pubblico nell’effettuare la transizione energetica: senza la ricerca pubblica, ricorda, non esisterebbero né microchip né Internet, ciò che insomma ha fatto la sua fortuna, e quindi insiste sul ruolo della mano statale. Il tutto senza dimenticare la necessità di redistribuire le risorse fiscali, anche per sostenere chi verrà penalizzato da queste politiche: fasce di reddito basso e lavoratori dei combustibili fossili.

Ed ecco quindi la sintesi del piano di Gates per il clima:

  • Quintuplicare la ricerca scientifica nei settori della transizione, ma con un occhio ai risultati pratici, che non è più tempo di ricerca di base, e coinvolgendo fin da subito l’industria, per evitare la lunga fase di transizione fra laboratorio e produzione.
  • Puntare su progetti ad alto rischio, ma dai potenziali grandi ritorni, che non c’è più tempo per seguire solo le strade già battute: meglio rischiare qualche fallimento, per fare però anche balzi in avanti
  • Rendere obbligatorio l’uso delle nuove tecnologie a basso impatto negli appalti pubblici, anche rimuovendo vecchie norme che ne impediscono l’uso: così si crea una domanda pubblica sicura, che invogli i produttori a puntare sulle novità.
  • Creare incentivi per l’uso delle nuove tecnologie e disincentivi per le vecchie, contribuendo ad abbattere i famosi Green Premium
  • Creare le infrastrutture che aiutino l’applicazione delle nuove tecnologie: inutile moltiplicare turbine e pannelli, se poi la rete elettrica non ne può sfruttare la produzione. E finanziare la demolizione delle centrali a combustibili fossili, anche se non ancora a fine vita.
  • Attenzione alla trappola dei traguardi intermedi: non permettere che li si raggiunga sostituendo tecnologie molto inquinanti con altre che lo sono un po’ meno, tipo carbone con metano, perché così si finirà per avere impianti a fossili anche dopo il 2050. Meglio tagliare subito la testa al toro.
  • Creare un sistema internazionale di tassazione della CO2, che cresca fino ad arrivare a rendere la sua emissione in aria costosa come la sua rimozione. E se alcuni paesi si rifiutano di aderire al sistema, se ne tassino le importazioni, così che evitino di approfittarsi del vantaggio.
  • Fissare standard di emissioni decrescenti nel tempo per elettricità, carburanti e prodotti, così che gli industriali sappiano di doversi adeguare per restare sul mercato.

Insomma, alla fine, il self made man Gates, che si è più volte scontrato con la politica per le pratiche monopolistiche di Microsoft, di fronte all’emergenza climatica invoca l’intervento degli Stati, sia pure di concerto con gli imprenditori privati, come unico modo per tirarci fuori da questa gravissima crisi.

Non arriva però fino a denunciare le distorsioni del consumismo, del liberismo economico, della finanza, che, con la loro insistenza sulla riduzione al minimo del ruolo di controllo e indirizzo dello Stato, hanno una responsabilità non piccola nella crisi climatica.

Forse questo ulteriore passo verso il “socialismo” lo farà nel suo prossimo saggio sul tema?

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