Al Festival dell’Economia di Trento 2024 (22-25 maggio) che, almeno nelle parti che ho ascoltato, mi sembra sia diventato un po’ troppo simile a qualunque talk show politico, è intervenuto a lungo in un’intervista il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso parlando della sua idea di politica industriale che ha definito almeno tre volte “assertiva”.
Un’assertività nella direzione principalmente del protezionismo, mi è parso, ma con elementi forse discordanti. Vediamo alcuni passaggi.
Sull’industria dell’auto il ministro ha annunciato nuovi incentivi alla rottamazione di auto inquinanti per l’acquisto di modelli più puliti (ibridi ed elettrici), incentivi legati anche all’origine italiana dell’auto.
Non solo: anche gli input devono essere il più possibile italiani, come l’acciaio e quello secondario dei forni elettrici non basta all’industria dell’auto.
Anche sugli aiuti alle energie rinnovabili ha lasciato intendere che un elemento discriminante potrebbe essere l’uso di apparecchi fatti in Italia.
Questi due punti non sono molto diversi dal requisito di origine locale previsto nei sussidi del programma americano Inflation Reduction Act e quindi non si può certo accusare Urso di iniziare lui un processo protezionistico.
Resta il fatto che la compatibilità tra simili norme e gli accordi internazionali sul commercio è quantomeno dubbia e che esse, mentre forniscono rendite ad aziende locali, costano care ai consumatori e al bilancio pubblico, se basate su sussidi alla capacità produttiva locale.
Nel lungo termine, poi, le aziende sottratte alla competizione internazionale difficilmente hanno gli stimoli per diventare più competitive.
Ma soprattutto: limitare l’economicità dell’energia rinnovabile per i consumatori o per i contribuenti potrebbe non essere un buon modo per promuoverla.
Ma torniamo a Urso. Sorpresa, è proprio sull’energia che il suo protezionismo si sospende.
Infatti, il ministro ha citato il piano italiano di diventare un “hub”, cioè un polo di passaggio ed esportazione, sia di gas sia di elettricità.
In altri termini: lo stesso Paese che vuole diventare energeticamente autonomo (altro auspicio del ministro) conta però sulla disponibilità degli altri paesi a dipendere da esso.
Ora, a mio avviso non c’è dubbio sul fatto che almeno a livello europeo, ma non solo, il sistema energetico sia e sarà caratterizzato da enormi interdipendenze e necessità di sfruttare potenzialità complementari a livello internazionale (si pensi a paesi ricchi di vento e altri ricchi di Sole, a chi ha il nucleare e chi grandi capacità di stoccaggio per ora in forma idroelettrica o anche – sebbene con un orizzonte temporale ristretto – a chi ha maggior accesso a corridoi di importazione del gas).
Proprio per questo ciò che non mi convince nella politica “assertiva” del ministro è che si basa sulla convinzione che si possa limitare l’import senza danneggiare l’export.
Non funziona così. Il protezionismo genera reazioni protezionistiche di chi oggi compra le nostre cose e rende più costosi gli input della nostra manifattura.
Cioè, danneggia l’export. E danneggia i consumatori, in primis quelli di energia, anche di energia pulita, condannati a pagarla di più.
L’articolo è stato pubblicato sul n. 3/2024 della rivista bimestrale QualEnergia, con il titolo “Globalizzazione fossile” (disponibile in versione completa pdf per gli abbonati PRO)