Tutta colpa di Obama?

  • 22 Dicembre 2009

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Non solo per gli obiettivi fiacchi in termini di taglio delle emissioni, ma la responsabilità del fallimento di Copenhagen, nella visione di Naomi Klein, ricadrebbe su Bararck Obama. Tante occasioni sono state sprecate nell'ultimo anno per trasformare l'economia Usa in una a più basso impatto ambientale, dal salvataggio di banche all'industria dell'auto fino al pacchetto stimolo.

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Il flop di Copenhagen? Tutta colpa di Obama. La lettura del fallimento della COP 15 fatta da Naomi Klein, saggista e maître à penser del movimento anticapitalista è severa soprattutto nei confronti del presidente Usa, colpevole forse anche di aver acceso speranze troppo grandi per il sistema-paese che si trova a governare.

“Per Obama nessuna opportunità è troppo grande per essere sprecata” è il titolo dell’editoriale comparso su The Nation con la quale la Klein commenta l’esito della Cop 15. Il risultato della conferenza di Copenhagen – significativamente ribattezzata Hopenhagen (da “hope”, cioè speranza) prima del vertice e Flopenhagen dopo la conclusione – come i nostri lettori sanno (Qualenergia.it “La delusione”) è stato quasi insignificante. “C’era un solo paese che aveva il potere di cambiare il gioco – scrive la Klein – non lo ha usato. Se Barack Obama fosse arrivato a Copenhagen con un impegno coraggioso di trasformare l’economia Usa liberandola dai combustibili fossili tutti gli altri grandi emettitori si sarebbero aggregati.”

Certo quel meno 17% dal 2005 al 2020 messo sul piatto dagli Usa – un meno 3-4% se tradotto su baseline 1990 – non può certo essere definito un obiettivo ‘temerario’, specie considerando che per avere qualche possibilità di restare sotto i 2°C (praticamente l’unico obiettivo contenuto nell'”accordo”) l’IPCC raccomanda che i paesi industrializzati taglino al 2020 dal 25 al 40% rispetto al 1990.

Bisogna però dire che le colpe del fallimento vanno cercate anche altrove: ad esempio, nel rifiuto cinese di vedersi assegnato qualche obbligo di riduzione della CO2 imposto dall’esterno che l’ha portata a voler togliere dalla dichiarazione finale anche l’obiettivo globale di tagliare del 50% al 2050 le emissioni e dell’80% per i paesi ricchi.

Sugli obiettivi Usa poi va detto che Obama difficilmente avrebbe potuto promettere più di quanto poteva mantenere: con il Climate Bill ancora da approvare al Senato il presidente avrebbe potuto segnare un autogol,  (Qualenergia.it “Obama un passo indietro e due avanti?”), mentre con un accordo seppur vago con il quale i paesi emergenti aprono per la prima volta a una qualche forma di monitoraggio internazionale sulle proprie emissioni il cammino della legge sul clima Usa dovrebbe essere più facile.

Ma la critica della Klein non si ferma a questo: sono altre le opportunità che Obama ha perso per dare una svolta decisa al paese verso il low-carbon. La prima è il gigantesco pacchetto stimolo che pure conteneva una discreta componente “verde”: “anziché usare quell’occasione per costruire il migliore servizio di trasporto pubblico e la migliore smart grid al mondo – sottolinea la saggista – è andato incontro ai repubblicani ridimensionando l’importo dello stimolo e puntando per la maggior parte sulle defiscalizzazioni. Certo, ha speso dei soldi per la riqualificazione energetica degli edifici, ma il trasporto pubblico è stato inspiegabilmente penalizzato a scapito delle autostrade che perpetuano la cultura dell’auto”.

Altra occasione perduta quella con l’industria dell’auto: al suo arrivo alla presidenza Obama si è trovato a doversi fare carico di 2 su 3 dei più grandi produttori ma, anziché approfittarne per rivoluzionare all’insegna dell’efficienza il settore e riconvertire le fabbriche in fallimento affinché andassero a costruire le infrastrutture di cui c’è bisogno per la green economy, “ha lasciato immutati i fondamentali dell’industria”. Infine il salvataggio delle banche: con le banche in ginocchio a chiedere il soccorso dello Stato Obama “avrebbe potuto obbligarle a concedere i prestiti per riqualificare energeticamente le industrie e costruire le nuove infrastrutture verdi. Invece, ha dichiarato che il governo non deve dire alle banche fallite come condurre i loro affari”.

Immaginate se questi tre enormi motori economici – le banche, l’industria dell’auto, il pacchetto stimolo – fossero stati imbrigliati in una comune visione di sviluppo verde. Se fosse accaduto, la domanda di un ‘energy bill’ complementare sarebbe stata parte dello stesso coerente progetto di trasformazione. Che poi il ‘climate bill’ fosse passato o meno in tempo per Copenhagen, gli Usa sarebbero già stati sulla strada per tagliare consistentemente le proprie emissioni e ispirare, anziché deludere, il resto del mondo.”

Certo, aggiungiamo noi, a discolpa di Obama va ricordato che si sta parlando di un paese in cui la gente scende per strada allarmata dal “pericolo socialista” contro una riforma che vorrebbe estendere la sanità pubblica gratuita e in cui – come dimostra il cammino accidentato della legge sul clima al Senato – le lobby economiche hanno molta più voce in capitolo degli elettori nei processi legislativi. Ma parte delle osservazioni della Klein restano pertinenti: “Ci sono veramente pochi presidenti degli Usa che hanno sprecato così tante opportunità storiche come Obama. Più che a qualunque altro il fallimento di Copenhagen va imputato a lui.”

 
La svolta dopo Bush senza dubbio c’è, ma con tanti nemici alla finestra questo processo di mutamento dell’economia e di lotta ai cambiamenti climatici deve essere intrapreso quanto prima, perché tra meno di tre anni il suo mandato sarà al termine e la rielazione non sarà così scontata. Obama e gli Usa sono fonadamentali, perché sappiamo che se si muove l’America, l’effetto traino è assicurato.

GM

 
21 dicembre 2009

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