Se il nucleare in tempo di pace è una tecnologia economicamente non più competitiva, con problemi irrisolti come quello delle scorie e un rischio di incidenti che, anche se relativamente basso, può portare a conseguenze disastrose, in un teatro di guerra diventa un vero e proprio incubo.
Ce lo ricorda quanto sta accadendo all’impianto di Zaporizhzhia, in Ucraina, al momento nelle mani dei russi e oggetto di bombardamenti dei quali Mosca e Kiev si accusano a vicenda.
Dopo essere stato colpita a marzo, fortunatamente senza conseguenze, la centrale è stata oggetto di bombardamenti lo scorso 5 agosto, con danni alle linee elettriche, e poi di nuovo nei due giorni successivi, con proiettili caduti vicino all’impianto di stoccaggio del combustibile esaurito, il ministero della Difesa russo ha affermato che la potenza di due dei sei reattori è stata ridotta a 500 MW.
La preoccupazione è alta e si sta tentando di far accedere all’impianto gli ispettori dell’agenzia internazionale per il nucleare (Aiea), forse invano, dato che il portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha affermato che Mosca ha fatto “tutto il necessario già da alcune settimane” per rendere possibile la visita, che non si è potuta realizzare “a causa della resistenza ucraina”.
Ma quanto è alto il rischio di incidenti?
Zaporizhzhia è la più grande centrale nucleare d’Europa e ospita sei reattori russi VVER-1000/320 da 950 MWe ciascuno, costruiti tra il 1984 e il 1995 e vi si trovano 2.204 tonnellate di combustibile esaurito (dato 2017).
Come mostra un’analisi di Greenpeace pubblicata ancora a marzo (documento in basso), nello scenario peggiore, in caso di bombardamento accidentale o di un attacco deliberato, le conseguenze potrebbero essere molto gravi, con impatti su vasta scala peggiori del disastro nucleare di Fukushima nel 2011.
L’Ucraina ha 15 reattori nucleari operativi, di cui 9 erano in funzione il 28 febbraio 2022 (si veda la mappa, fonte Iaea). È ovvio che in tempo di guerra il funzionamento di questi sistemi è a rischio interruzione con potenziali conseguenze significative, anche gravi.
E il rischio non è solo dato dai missili e dalle bombe: a causa della dipendenza delle centrali nucleari da un complesso sistema di supporto e del tempo necessario per portare gli impianti a un livello di sicurezza passivo, l’unico modo per ridurre i rischi sarebbe fermare immediatamente la guerra, sottolinea Greenpeace.
Una centrale nucleare operativa, si ricorda, richiede elettricità senza interruzioni per alimentare le pompe e la fornitura d’acqua per raffreddare il combustibile, sia nel reattore che nelle adiacenti piscine dove è stoccato il combustibile esaurito.
Anche quando il reattore è spento, c’è un’enorme quantità di calore residuo nel nucleo che richiede un raffreddamento continuo.
Senza raffreddamento, l’acqua nel nocciolo del reattore (e quella delle piscine del combustibile esaurito) inizia a riscaldarsi. Nel caso di un reattore in funzione il riscaldamento è rapido: l’acqua raggiunge il punto di ebollizione e comincia a evaporare, e il combustibile caldo del reattore nucleare rischia di entrare in contatto con l’aria, provocando una reazione termica e una fusione del nocciolo del reattore, come accaduto a Fukushima.
Nel caso del combustibile esausto, può avvenire una reazione chimica altamente esotermica con conseguente rilascio di un volume molto elevato di radioattività.
Quindi, anche senza danni fisici alla centrale, cioè senza che venga colpita accidentalmente, un impianto nucleare è molto vulnerabile, visto che richiede sistemi attivi di protezione che devono rimanere sempre funzionanti, oltre alla continua presenza di personale qualificato.
Non solo deve essere assicurata la fornitura di acqua, elettricità e carburante per i generatori di emergenza, ma centinaia di lavoratori devono poter raggiungere l’impianto dalle proprie abitazioni, cosa complessa in circostanze di guerra.
Infatti, in uno scenario in cui si verifichi un inconveniente, come un’interruzione della rete elettrica o problemi ai generatori diesel, è essenziale mobilitare rapidamente grandi quantità di attrezzature e personale aggiuntivo.
Ogni problema quindi potrebbe richiedere un’importante operazione logistica a livello nazionale che potrebbe essere resa difficile, se non impossibile, dalle attività belliche intorno alla centrale.
In un conflitto armato, inoltre, non può essere escluso che una centrale resti isolata dalla rete per un periodo di tempo lungo: a quel punto, per evitare il disastro, bisognerebbe solo sperare che i generatori diesel di emergenza siano perfettamente funzionanti e soprattutto che sia loro garantita una fornitura di carburante sufficiente, fino a quando sia ristabilita la connessione alla rete.
-
Il dossier di Greenpeace (pdf)