Un ministero della transizione che parte in salita

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Perché la scelta del ministro per la transizione ecologica lascia perplessi e perché le energie rinnovabili non possono trovare terreno fertile nell'approccio tecnocratico.

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Cimentarsi oggi in previsioni su cosa potranno fare le personalità incaricate di governare la tematica climatica ed energetica dell’esecutivo Draghi non è un compito appassionante.

Primo, perché qui proviamo a parlare di cose concrete, cercando di dare un contributo a imprese e cittadini sulle tematiche che riguardano le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica e del contesto in cui si muovono. La sfera di cristallo la lasciamo ad altri.

Secondo, perché le variabili che incideranno sulle contorte dinamiche politiche, e su quelle industriali, del mercato globale e sui tempi a disposizione di questo governo, peraltro di corto respiro, sono così numerose che potremmo avventurarci su percorsi imprevedibili. Il “cigno nero” è poi sempre dietro l’angolo; ne sappiamo qualcosa da un anno a questa parte, anche se non è detto che questo cigno abbia sempre connotati negativi.

I fatti dei giorni scorsi, tuttavia, ci portano ad un paio di considerazioni.

La prima riguarda la scelta del neo ministro del tanto agognato dicastero della Transizione Ecologica che si occuperà soprattutto delle tematiche energetiche: Roberto Cingolani. Un fisico, direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia e responsabile dell’innovazione tecnologica di Leonardo spa, ex Finmeccanica, tra le primissime imprese al mondo nel campo degli armamenti (le entrate dal settore difesa sono il 68% del suo fatturato).

Il “tecnico” neo ministro, sconosciuto a gran parte degli operatori nel settore dell’energia verde italiana e degli stessi entusiasti promotori del nuovo ministero, ha fatto delle dichiarazioni che poco hanno a che fare con quel processo di decarbonizzazione che dovrebbe portare avanti (alcune risalenti ad un anno fa le potete leggere qui).

A parte il fatto che non è mai piacevole vedere nella stessa frase o persona due concetti come “ecologia e armi”, si potrebbe aggiungere che storicamente gli ostacoli e i freni principali allo sviluppo delle rinnovabili sono sempre stati messi per mano degli “esperti” legati al sistema energetico ed economico tradizionale e dei fossili, ancora oggi ben radicati nelle nostre istituzioni.

E il motivo è semplice: il loro approccio è tecnocratico, con processi decisionali che arrivano dall’alto e rigidamente incanalati.

Un metodo che confligge con un modello energetico che deve passare velocemente dal fossile all’energia distribuita e pulita. Quest’ultima avrebbe bisogno, al contrario, di una spinta dal basso, con iniziative diffuse e frammentarie, caotiche e virali, che liberino idee e ingegno, come tutte le rivoluzioni tecnologiche. Insomma, il tecnocrate ha spesso un bias cognitivo che non gli consente di comprendere la vera innovazione, se non quella meramente tecnica.

Ma spieghiamo meglio il concetto di vera innovazione, e cioè su ciò che in buona parte dovrà essere il contenuto del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNNR). Un aspetto da chiarire è cosa sono le innovazioni che creano mercati e perché proprio queste dovranno essere facilitate dal governo.

Come afferma nel saggio “Prosperity Paradox”, Clayton Christensen, professore alla Harvard Business School, le innovazioni che creano mercati sono quelle che servono le persone per le quali prima non esisteva nessun prodotto o per le quali il prodotto esistente era inaccessibile, perché complesso o costoso; quindi, le vere innovazioni democratizzano un prodotto o un servizio, lo rendono più economico, mentre precedentemente potevano essere prerogativa di pochi, dei più facoltosi.

Ma questo tipo di innovazioni, che definiremo “buone innovazioni”, con un effetto domino, producono dell’altro. In particolare, favoriscono la creazione di posti di lavoro locali, difficili da trasferire in altri paesi, ma anche lavori globali da esportare dove serve; creano profitti che poi possono essere reinvestiti anche per finanziare i servizi pubblici, visto che attirano risorse per nuove infrastrutture; infine, riescono perfino a modificare la cultura di una società, permeando vecchie e nuove istituzioni, insieme ad una nuova spinta all’istruzione e alla ricerca.

La storia anche recente è piena di esempi. Come non vedere nell’innovazione buona quel processo di transizione energetica che in molti chiedono?

Le innovazioni e la massiva diffusione delle tecnologie solari e rinnovabili e quelle per l’efficienza energetica nell’industria e nell’edilizia, le diverse forme di stoccaggio, la mobilità elettrica, possono essere catalizzatori di ulteriori innovazioni, infrastrutture e opportunità per l’intera società. E di nuovi mercati.

Ma innovazioni, ben inteso, che devono essere lasciate libere di moltiplicare i lori effetti, dare benefici all’ambiente ed essere a disposizione di tutti e non realizzate per l’interesse economico di pochi.

Solamente se ci sarà la possibilità di veder crescere questa spinta dal basso e questo tipo di innovazione in Italia, guidata e stimolata dalla politica, allora potremmo giudicare favorevolmente l’operato di questo, come di altri governi.

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