Con la pubblicazione dei decreti attuativi e gli incentivi del PNRR anche l’Italia ha aperto la strada alla moltiplicazione delle Comunità energetiche rinnovabili: tre parole che rimandano a un programma complessivo.
L’energia è l’ambito della transizione alla sostenibilità più urgente e più generale, anche se certamente non l’unico. Rinnovabile vuol dire chiudere con l’epoca dei combustibili fossili.
Questo cambiamento impone una radicale inversione di paradigma nei processi economici, per sostituire alle economie di scala fondate su grandi impianti e grandi reti di controllo economico e finanziario (come il ciclo degli idrocarburi, dalla culla alla tomba) i princìpi del decentramento, della diffusione, della differenziazione territoriale, dell’integrazione attraverso un rapporto diretto anche personale tra produzione di beni o erogazione di servizi e consumo.
Uscire dall’economia dei fossili non può essere un semplice fatto tecnico. Comporta il passaggio da un’economia in cui il potere è concentrato e centralizzato grazie al controllo degli idrocarburi (e del capitale necessario a sfruttarli), a un sistema di poteri diffusi.
Un decentramento che finirebbe per investire tutti gli altri settori portanti dell’economia: agricoltura e alimentazione, mobilità, costruzioni, gestione delle risorse, assetto del territorio.
Infine, comunità è al tempo stesso il medium e il fine della transizione: medium perché senza comunità, cioè senza partecipazione dal basso e senza conflitto con chi la vorrebbe smembrata, la transizione non si fa: lo abbiamo dovuto constatare da oltre trent’anni; il fine, perché la combinazione di partecipazione e conflitto è l’ambito della realizzazione più piena della persona e della libertà: ciò che fa della transizione alla sostenibilità una conversione ecologica.
Il tutto, in una prospettiva di iniziative dal basso, di ambito prevalentemente locale, tesa a legare, benché non in forma esclusiva, sia comunità, territorio e governi locali, sia, in rete tra di loro, diverse comunità e territori complementari.
Dalla gestione comunitaria, cioè partecipativa e conflittuale di questi ambiti può scaturire anche – soprattutto in campo energetico, alimentare, della mobilità e dell’assetto del territorio – la domanda per sostenere la riconversione di molte produzioni manifatturiere da rilocalizzare in tutto o in parte all’interno dei territori su cui insistono le comunità più attive; ovvero per elaborare dal basso piani di riconversione produttiva di intere filiere, da sviluppare sia tra le comunità direttamente coinvolte che come rivendicazioni di carattere generale da sottoporre ai governi nazionali e sovranazionali.
I rapporti di forza per portare avanti rivendicazioni di carattere generale orientate alla sostenibilità ambientale possono nascere solo dal tessuto di tante comunità che abbiano raggiunto un certo grado di autonomia.
Ma chi pagherà i costi della transizione? Quei costi andrebbero verificati: non tengono mai conto dei benefici connessi, guadagni e risparmi; e la salvaguardia del sistema economico e produttivo, che ci sta portando alla catastrofe, non può essere un obiettivo accettabile.
Il discorso va rovesciato: se l’orizzonte entro cui riportare tutte le attività è la sostenibilità, la priorità va data agli investimenti indispensabili, abbandonando in modo programmato e senza lasciare per strada i relativi addetti in tutte le attività incompatibili con l’obiettivo principale, aprendo però la strada a una loro ricollocazione e, comunque, a un reddito di transizione.
L’articolo è stato pubblicato sul n.3/2024 della rivista bimestrale QualEnergia, con il titolo “Conversione di comunità”