La rete elettrica è sempre più interconnessa tra paese e paese e ci sono buone prospettive di aumentare i collegamenti tra diversi continenti.
È una scelta ovvia in uno scenario climatico spinto, dove le energie rinnovabili erodono continuo spazio alle centrali a carbone e gas e devono poter far viaggiare l’elettricità a lunghe distanze per gestire le fluttuazioni delle produzioni solari ed eoliche.
Anche i metanodotti si estendono sempre di più. Ma nel caso del gas il futuro è incerto perché il metano deve confrontarsi con problemi di fondo legati all’evoluzione della domanda, un rischio inesistente per gli elettrodotti considerata la spinta all’elettrificazione nel settore civile e in quello dei trasporti.
Questa preoccupazione è chiaramente maggiore nei paesi che hanno deciso di puntare ad una neutralità climatica nell’arco di 25-30 anni.
In California, ad esempio, diverse città hanno imposto l’opzione “all electric” per le nuove case, evitando così l’allacciamento alle reti di metano.
Addirittura, la più grande azienda di gas ed elettricità dello Stato, la Pacific Gas and Electric Company, ha chiesto che la nuova normativa statale sulle costruzioni proibisca l’allacciamento alla rete del metano per tutti i nuovi edifici, in modo da evitare la realizzazione di reti di distribuzione del gas inutilizzabili già prima del 2045, data fissata dalla California per avere elettricità carbon neutral.
Di fronte al concreto rischio connesso agli scenari di decarbonizzazione, negli scorsi anni si è pensato a rinverdire il gas da trasportare grazie all’aggiunta di biometano. La produzione attraverso digestori anaerobici di biogas ha avuto negli ultimi anni un’interessante evoluzione. Si prevede il doppio raccolto in modo da evitare di sottrarre suolo all’agricoltura e l’utilizzo del digestato per fertilizzare e arricchire l’humus dei terreni.
Ma per quanto il potenziale di biometano sia molto interessante, esso non può essere sufficiente ad avere un gas “green” a metà secolo.
Ed ecco che l’esigenza di trovare un futuro certo alle reti nazionali e internazionali del gas viene dall’idrogeno, verde anch’esso ovviamente. Questo passaggio consente di centrare due obbiettivi. Rende accettabile il gas negli scenari climatici e, soprattutto, apre nuovi mercati considerando che il ruolo del metano è destinato a ridursi drasticamente.
Su questa opzione, però, che si fonderebbe sull’espansione della domanda, le società che gestiscono metanodotti sembrano attribuire eccessive speranze. Mentre alcune applicazioni sono importanti, anzi essenziali, in altri comparti, pensiamo all’edilizia o al settore dell’auto, la diffusione dell’idrogeno è illusoria.
E poi c’è il tema della sua produzione.
Gli scenari dell’idrogeno verde fanno affidamento sulla produzione in paesi che hanno ottime risorse rinnovabili e molto spazio per esportarlo attraverso idrogenodotti (l’Africa del Nord, l’Australia, il Messico…).
Ma la disfida tra tubi e cavi è aperta.
Un esempio viene proprio dall’Australia, al momento il maggiore esportatore di carbone al mondo. Considerando il potenziale di solare ed eolico e il probabile calo delle vendite di carbone, il paese sta facendo progetti per uno sfruttamento su larga scala sperando di poter vendere idrogeno al Giappone, alla Corea del Sud e, magari, all’Europa.
Se però l’esportazione di idrogeno è ancora al livello di ipotesi, più concreto è lo scenario per l’esportazione di elettricità verde, come dimostra il progetto da 16 miliardi $ per collegare l’Australia con Singapore con un elettrodotto sottomarino ad alta tensione in corrente continua di 3.700 km per trasportare l’elettricità generata da mega-impianti solari e parchi eolici per complessivi 15 GW.
Articolo tratto dal rapporto GreenItaly 2020 realizzato da Symbola e Unioncamere.