Il sostanziale fallimento dei negoziati sul clima alla CoP 25 di Madrid ha mostrato, ancora una volta, quanto sia difficile far accettare il principio “chi inquina paga”.
Nessun accordo è stato raggiunto, infatti, su alcuni punti cruciali che avrebbero consentito di far decollare la lotta contro il cambiamento climatico, tra cui soprattutto la creazione di un mercato internazionale del carbonio (carbon market) e la destinazione di maggiori finanziamenti ai paesi in via di sviluppo, per farli investire in politiche “verdi”.
E mentre tutto è rimandato alla CoP 26 di Glasgow a novembre 2020, l’Europa vuole provare a compiere dei passi avanti: tra le iniziative del Green Deal lanciato dalla Commissione Ue mentre era in corso la CoP in Spagna, c’è proprio l’idea di far pagare l’inquinamento a chi lo produce, grazie a un nuovo meccanismo di carbon pricing.
Più in dettaglio, l’idea prevede di tassare alla frontiera certe materie prime fabbricate in paesi esteri, sulla base del loro contenuto di anidride carbonica.
Si parla sempre più spesso, infatti, di un meccanismo di “Border Carbon Adjustment” (BCA), una sorta di dazio per “colpire” i prodotti importati da quelle nazioni che non rispettano i medesimi standard ambientali in vigore in Europa.
Anche il Consiglio europeo, che ha ufficialmente approvato l’obiettivo del Green Deal di azzerare le emissioni nette di CO2 entro il 2050 (con qualche spina nel fianco però: la Polonia contraria e la “battaglia” di alcuni Stati membri per il nucleare), ha sposato la proposta di una carbon tax alla frontiera su determinati prodotti extra-Ue.
Allora come potrebbe funzionare una carbon tax così concepita?
L’organizzazione indipendente Sandbag, specializzata in analisi su energia e clima, ha appena dedicato al tema un approfondimento (allegato in basso), The A-B-C of BCAs, una mini-guida sulle prospettive per il Border Carbon Adjustment in Europa.
Cerchiamo di capire meglio.
Un “adeguamento” fiscale della CO2 alla frontiera, in generale, si legge nello studio, ha l’obiettivo di dare un prezzo alle emissioni di CO2 incorporate nei beni importati in Europa; ciò potrebbe facilitare il commercio internazionale di prodotti a basso contenuto di anidride carbonica (low-carbon goods), aiutando a creare un terreno di comune competizione tra le industrie dei vari continenti.
In altre parole: tutte le industrie dovrebbero giocare con le stesse regole, perché sarebbero costrette a pagare qualcosa in base alla quantità di CO2 rilasciata nell’atmosfera per realizzare un dato prodotto immesso sul mercato, ad esempio acciaio, carta, alluminio, cemento, carburanti e così via.
Tuttavia, attuare una politica di questo tipo è molto complesso. Gli esperti di Sandbag chiariscono che occorre valutare molti aspetti.
Innanzitutto, occorre scegliere l’ingranaggio preciso di questo meccanismo di “adeguamento” alla frontiera. E qui c’è uno stretto legame con il mercato europeo ETS (Emissions Trading Scheme), il mercato che regola lo scambio di quote di CO2 per migliaia di industrie nel nostro continente.
Il punto è che una politica di Border Carbon Adjustment andrebbe coordinata molto bene con l’evoluzione del sistema ETS.
C’è il rischio, infatti, di avere delle sovrapposizioni. Ricordiamo infatti che molte industrie europee già beneficiano di quote gratuite di CO2, per evitare che vadano a produrre in altri paesi con regole ambientali meno severe.
Ma quelle industrie avrebbero una doppia protezione, se oltre alle quote gratuite avessero anche lo “scudo” dei dazi alla frontiera, o di un obbligo per chi esporta in Europa di acquisire, pagandole, un certo numero di quote sul mercato ETS.
Di conseguenza, Bruxelles dovrebbe bilanciare con molta attenzione il dosaggio di entrambe le misure volte a limitare le emissioni inquinanti, evitando che l’una interferisca con l’altra.
Un altro punto di fondamentale importanza è la compatibilità delle tariffe protezioniste con le regole internazionali del WTO (World Trade Organization), compatibilità che andrebbe cercata nella particolare forma di protezionismo ambientale.
Senza dimenticare che chi esporta in Europa potrebbe trovare il modo di aggirare le tariffe, ad esempio esportando prodotti semilavorati o ricorrendo a delle triangolazioni commerciali.
E poi bisognerebbe bilanciare attentamente anche il peso della carbon tax alla frontiera, fissando l’entità della tariffa secondo l’andamento del mercato ETS (oltre che degli eventuali mercati extra Ue che già tassano la CO2), in modo da garantire una certa uniformità di prezzo e trattamento.
Il seguente documento è riservato agli abbonati a QualEnergia.it PRO:
- Analisi di Sandbag su come tassare la CO2 alla frontiera (pdf in inglese)
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