Le agenzie umanitarie potrebbero risparmiare circa mezzo miliardo di dollari l’anno grazie alle energie rinnovabili, secondo le stime riportate da un nuovo studio di Chatham House, l’istituto indipendente britannico di affari internazionali.
Il documento fa luce su un aspetto finora molto trascurato dal dibattito globale sulla transizione energetica-ecologica: l’utilizzo massiccio di combustibili fossili, soprattutto diesel per i trasporti e per la generazione elettrica, nelle missioni di aiuto ai rifugiati e più in generale alle popolazioni povere.
Si parla, in particolare, di campi profughi e strutture di vario tipo (ospedali, scuole, uffici, depositi alimentari, pompe e cisterne d’acqua) che si trovano in aree geografiche spesso remote e senza alcun collegamento alla rete elettrica, dove i costi per l’approvvigionamento di carburante incidono in modo rilevante sui bilanci delle attività umanitarie.
Chatham House, infatti, ha calcolato che le agenzie del settore “bruciano” ogni anno il 5% circa del loro budget complessivo per acquistare i carburanti fossili – principalmente gasolio – necessari ad alimentare motori dei veicoli e generatori elettrici.
Gli autori del documento hanno basato le loro proiezioni sui dati che hanno raccolto da 21 organizzazioni umanitarie attive in Burkina Faso, Kenya e Giordania, oltre che sulle ricerche condotte da altri enti e istituti (non molte per la verità) sul medesimo tema.
Il punto, osserva Chatham House, è che nella maggior parte dei casi esaminati sarebbe possibile sostituire la produzione di elettricità con il diesel a favore di sistemi ibridi o addirittura 100% rinnovabili/solari, con un contributo marginale del gasolio per la generazione di emergenza e backup, grazie ai costi sempre più competitivi degli impianti fotovoltaici e delle micro-reti solari nelle zone rurali (vedi anche QualEnergia.it).
Bisogna però incoraggiare le agenzie umanitarie a non pensare al diesel come prima e unica soluzione disponibile – “diesel first” mindset scrivono gli esperti dell’istituto inglese – convincendole con esempi di buone pratiche a includere i parametri di efficienza energetica e riduzione delle emissioni inquinanti nei piani operativi, dopo aver loro illustrato i benefici degli investimenti in fonti rinnovabili.
Tra i casi citati dallo studio, c’è il parco fotovoltaico da 3,5 MW (saranno 5 MW nel 2021) in un campo profughi in Giordania, gestito dall’UNHCR, l’Alto commissariato dell’ONU per i rifugiati, che quando sarà completato soddisferà fino al 70% del fabbisogno energetico con un tempo di ritorno dell’investimento di circa sette anni.
Un altro esempio è il magazzino alimentare del World Food Programme a Herat, in Afghanistan, il cui consumo energetico (illuminazione, refrigeratori eccetera) è assicurato da un impianto ibrido eolico-solare-diesel che permetterà di risparmiare in totale circa 900.000 dollari in 15 anni, rispetto alle bollette che si sarebbero pagate impiegando esclusivamente il gasolio.