La finanza “verde” guadagna terreno, ma ci vuole ben altro per salvare il clima

Nel 2017 spesa la cifra record di 612 miliardi di dollari su scala globale in attività di “mitigazione”. I dati principali del rapporto pubblicato dalla Climate Policy Initiative.

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Nel mondo si spendono sempre più soldi per combattere i cambiamenti climatici, ma il livello degli investimenti “verdi” è ancora troppo basso.

Questa, in sintesi, la tendenza che emerge dall’ultimo rapporto della Climate Policy Initiative (CPI), l’organizzazione internazionale che studia i flussi della “finanza climatica” (climate finance).

Vediamo meglio qual è il quadro con l’aiuto di qualche grafico.

Nel 2017, si legge nel documento Global Landscape of Climate Finance 2019 (allegato in basso), in tutto il mondo tra investimenti pubblici e privati si è toccata la cifra record di 612 miliardi di dollari nei vari settori economici volti a de-carbonizzare il mix energetico, ridurre le emissioni inquinanti e proteggere gli ecosistemi. Si parla, quindi, di fonti rinnovabili, efficienza energetica, trasporti “puliti”, adattamento ai rischi climatici, agricoltura “sostenibile” e così via.

La finanza climatica è poi scesa a 546 miliardi di dollari (-11%) nel 2018, ma la media degli investimenti annuali nel biennio 2017-2018, come evidenzia il grafico sotto, ha superato del 25% quella registrata nel 2015-2016, grazie soprattutto all’incremento delle spese indirizzate alle diverse tecnologie low-carbon in Cina, India e Stati Uniti.

Tuttavia, segnala il documento, per trasformare l’economia mondiale nella misura richiesta dagli obiettivi internazionali sul clima, cioè limitare sotto 2 gradi centigradi il surriscaldamento del Pianeta, la finanza climatica dovrebbe essere molto più ingente.

Le stime riportate dalla Climate Policy Initiative (che a loro volta si rifanno ai calcoli dell’IPCC) vanno da un minimo di 1.600 miliardi di dollari l’anno a un massimo di 3.800 miliardi di dollari/anno dal 2016 al 2050, tenendo conto solamente degli investimenti necessari a rivoluzionare il mix delle forniture di energia (supply-side energy system).

Così, nello studio gli analisti usano l’espressione “tectonic shift”: letteralmente “spostamento tettonico” per indicare l’enorme portata del cambiamento richiesto alla finanza globale, ancora troppo agganciata ai combustibili fossili, come chiarisce il grafico seguente.

Si vede con chiarezza che gli investimenti annuali in carbone, gas e petrolio sono nettamente più elevati in confronto a quelli per le energie rinnovabili, se nel computo si considerano non solo i nuovi impianti di generazione elettrica, ma anche, più in generale, tutte le attività e infrastrutture per produrre e distribuire carburanti fossili (miniere, giacimenti degli idrocarburi, gasdotti, eccetera).

Infine, con il terzo e ultimo grafico osserviamo più in dettaglio com’è ripartita la finanza climatica; da precisare che il grafico si riferisce ai soldi spesi nelle attività di mitigazione (si parla infatti di “mitigation finance”), quelle che puntano a ridurre le emissioni di CO2 o rimuoverle dall’atmosfera, che hanno rappresentato il 93% della climate finance globale.

Sono quindi esclusi gli investimenti, molto più ridotti, nelle attività di adattamento/preparazione ai rischi climatici e ambientali, la cosiddetta “adaptation finance”.

Nel 2017-2018 il 44% dello sforzo economico “verde” per la mitigazione è arrivato dal settore pubblico con una media annuale pari a 253 miliardi di dollari, di cui la fetta maggiore (94 miliardi) destinata ai trasporti a basse emissioni inquinanti.

Gli investimenti privati invece, hanno riguardato perlopiù i progetti nelle energie rinnovabili con 278 miliardi di dollari in media ogni anno sui 326 totali.

Nel complesso, sommando i flussi pubblici e privati, alle fonti rinnovabili è arrivato il 63% della finanza climatica per misure di mitigazione nel 2017-2018, con una punta di 350 miliardi di dollari nel 2017.

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