Il greenwashing delle multinazionali: grandi impegni per il clima, piccoli risultati

Le grandi aziende di vari settori, dalle auto all'abbigliamento, puntano verso obiettivi net zero ma le loro azioni reali sono spesso inefficaci e ingannevoli. I risultati delle analisi di due organizzazioni indipendenti no-profit.

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Il greenwashing è più pervasivo che mai e rischia di far prendere molte decisioni sbagliate ai consumatori di tutto il mondo.

Possiamo riassumere così i risultati della nuova edizione 2023 del “Corporate Climate Responsibility Monitor” pubblicato da NewClimate Institute e Carbon Market Watch, due organizzazioni no-profit indipendenti, specializzate nelle analisi sulle politiche per il clima di governi, aziende e istituzioni.

Lo studio ha esaminato gli impegni climatici di 24 multinazionali di diversi settori commerciali – tra cui Amazon, Apple, Nestlé, Stellantis, Volkswagen – che complessivamente hanno un fatturato superiore a 3.000 miliardi di euro e sono responsabili del 4% circa delle emissioni globali di CO2.

Queste aziende affermano di essere in prima linea contro il cambiamento climatico, grazie alla loro adesione alla campagna Race to Zero supportata dalle Nazioni Unite. I macro-settori di provenienza sono sette: automobili, moda al dettaglio, supermercati, cibo e agricoltura, tecnologia ed elettronica, navi e aerei, acciaio e cemento.

Il punto, si spiega, è che le multinazionali sostengono di avere obiettivi per azzerare le emissioni di gas serra e rivendicano una leadership climatica che però, alla prova dei fatti, non hanno.

Da ciò il greenwashing: le imprese fanno credere ai consumatori di avere un forte impegno ambientale, mentre le azioni reali non riflettono questa ambizione verde. In sostanza, si va avanti con il business-as-usual.

Difatti, emerge dal rapporto, nessuno dei piani climatici delle 24 aziende ha ricevuto un punteggio di “elevata integrità” in base ai diversi criteri usati, tra cui gli obiettivi di breve, medio e lungo termine (fino al 2050) per ridurre le emissioni di gas serra e le misure concrete con cui raggiungere questi obiettivi (energie rinnovabili, efficienza energetica, economia circolare).

Si è misurata, quindi, la credibilità degli impegni climatici, la loro coerenza con le attività aziendali e le strategie industriali-commerciali dei singoli marchi.

Solamente una società, il gigante danese delle spedizioni Maersk, ha ottenuto una valutazione di “ragionevole integrità”. Apple, ArcelorMittal, Google, H&M Group, Holcim, Microsoft, Stellantis e Thyssenkrupp hanno ricevuto un giudizio moderato, mentre ben 15  aziende hanno meritato punteggi bassi o molto bassi.

In particolare, evidenzia lo studio, le aziende, nel complesso (considerando quindi la media aggregata) si sono impegnate a ridurre le loro emissioni del 15% circa entro il 2030, molto meno però del 43% richiesto per stare in linea con il target climatico stabilito dagli accordi di Parigi nel 2015 (limitare a +1,5 °C il surriscaldamento terrestre).

E guardando al 2050, gli impegni reali delle multinazionali si fermano a un 36% di riduzione delle loro emissioni complessive di gas serra, nonostante abbiano piani e strategie che sulla carta sono “net-zero”, cioè vanno verso un azzeramento delle emissioni.

Esiste un divario enorme tra quello che le aziende dicono di voler fare (net-zero) e quello che fanno realmente.

Inoltre, si osserva, molte multinazionali dichiarano di puntare alla cosiddetta “neutralità carbonica”: ciò significa che le emissioni residue andranno rimosse con soluzioni di carbon offset, come i progetti di forestazione per assorbire anidride carbonica.

Così la maggior parte delle società pensa di compensare o neutralizzare una quota significativa delle emissioni, utilizzando crediti di carbonio derivanti solo da progetti forestali e altri progetti di utilizzo del suolo.

Ma soluzioni di questo tipo, si spiega, sono in grado di immagazzinare il carbonio in via temporanea; inoltre se tutte le altre compagnie globali volessero fare altrettanto, si fa notare, avremmo bisogno di un secondo Pianeta, perché sulla nostra Terra non avremmo risorse naturali sufficienti per compensare tutte le emissioni.

In sostanza i governi, si legge nelle analisi, dovrebbero vietare alle imprese di usare termini fuorvianti e ingannevoli, come la neutralità del carbonio, nelle loro comunicazioni (pubblicità incluse), se non sono in grado di dimostrare i loro impegni climatici.

Intanto, in Europa, la Commissione Ue intende combattere le false rivendicazioni verdi fatte dalle imprese, con la proposta della nuova direttiva Green claims. Secondo Bruxelles, le dichiarazioni di sostenibilità dovrebbero essere oneste, trasparenti, suffragate da dati verificabili e confrontabili con altri prodotti e servizi simili, in modo che il consumatore abbia tutte le informazioni per scegliere consapevolmente cosa acquistare.

Uno studio del 2020 della stessa Commissione, invece, ha rilevato che il 53% delle dichiarazioni ambientali, su più di 1.300 prodotti-servizi esaminati e più di 1.600 pubblicità, fornisce informazioni scorrette o troppo generiche sui presunti vantaggi green.

Pertanto – e questo è un compito particolarmente difficile – bisognerà anche definire metodi affidabili e armonizzati a livello europeo per calcolare le impronte ecologiche delle diverse categorie di prodotti, sul loro intero ciclo di vita (produzione, consumo, smaltimento).

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