Gli impatti del grande idroelettrico e gli standard che vanno adottati

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Il mega idroelettrico basato su dighe nelle gole fluviali e grandi centrali ha impatti idrologi, ambientali, climatici e sociali. Allora come si può evitare di rinunciare completamente al nuovo, e più sostenibile, idroelettrico?

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Pare incredibile, ma prima della seconda guerra mondiale il 40% dell’elettricità degli Usa veniva da centrali idroelettriche, così come quasi la totalità di quella italiana.

Il cosiddetto “oro blu” ha infatti sostenuto la rivoluzione industriale nei paesi che potevano disporre di questa risorsa, tanto quanto il carbone lo ha fatto in paesi, come Gran Bretagna e Germania, dove il potenziale idroelettrico era molto minore.

Non sorprende quindi che quel primo modello di industrializzazione “verde”, basato su dighe nelle gole fluviali e grandi centrali elettriche, stia venendo imitato in decine di paesi in via di sviluppo, dall’Etiopia al Brasile, passando per il Congo e la Cina.

La diga-mania nell’ex terzo mondo è tale che, a vari stadi di progetto, sono in lista di attesa nel mondo ben 3700 impianti idroelettrici sopra il MW di potenza, fra cui alcuni giganteschi, come il progetto Inga (vedi foto in alto), lungo il fiume Congo (uno dei pochi rimasti senza sbarramenti), per 40 GW, o quello cinese lungo lo Yarlung Tsangpo, in Tibet, che da solo produrrebbe ogni anno tanta elettricità quanto ne usa l’Italia.

Dobbiamo esultare, quindi, per il grande, forse il maggiore, contributo che nuovi dighe e bacini idroelettrici nel mondo, daranno alla transizione energetica verso le rinnovabili?

Secondo il geografo Emilio Moran, della Michigan State University, non è proprio il caso, visti costi e danni che molti di questi progetti rischiano di creare.

Moran, e il suo team di idrologi e ingegneri, è arrivato a questa conclusione in uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, dopo aver esaminato decine di ricerche sugli impatti degli impianti idroelettrici.

La loro conclusione? “I danni materiali, ambientali, sociali e culturali, che questi invasi sono in grado di produrre sono quasi sempre sottostimati e certe volte superando addirittura i guadagni ottenuti nella loro vita utile”, dice Moran. “A peggiorare le cose, molto spesso, perdite e danni finiscono a carico delle solitamente molto povere comunità locali che risiedono intorno alla nuova diga o al fiume sbarrato, mentre i profitti finiscono in tasca ad elite in metropoli molto distanti dall’impianto”.

I primi danni che le dighe generano sono idrologici: la diga annulla il naturale ciclo della portata del fiume, a cui erano abituate le comunità a valle, e ne riduce il flusso. Se in paesi temperati questa diminuzione, una volta riempito il bacino, è sopportabile, in quelli caldi le perdite per evaporazione, dalle acque immobili del lago artificiale, sono notevoli e crescono ulteriormente se si aggiungono prelievi dal bacino per alimentare industrie, miniere o piantagioni.

“L’acqua che scende dalla diga, poi, è largamente deprivata di sedimenti: quindi non fertilizza più i campi e non rimpolpa più le spiagge. È noto che i contadini egiziani, dopo la diga di Assuan, non possono più contare sul limo del Nilo come fertilizzante, e devono oggi ricorrere a quelli artificiali”, ricorda Moran.

Per quanto riguarda l’impatto ambientale, si potrebbe pensare che un lago artificiale, in fondo, non sia troppo diverso da uno naturale, ma non è così: nei bacini artificiali il ristagno dei sedimenti rende le esplosioni di alghe più frequenti, togliendo ossigeno all’acqua, mentre le pareti scoscese e il livello molto variabile, impediscono la formazione di ecosistemi lungo le rive. La diga blocca poi il movimento e le migrazioni stagionali delle popolazioni di pesci, e le scale in cemento costruite accanto alle dighe per ripristinarne il passaggio, si sono rivelate quasi sempre inefficaci.

“In definitiva i laghi artificiali finiscono per diminuire la biodiversità delle aree dove si realizzano, e non l’aumentano come fanno paludi e laghi naturali”, spiega Moran.

A questo si aggiunge che, soprattutto nei paesi caldi, sedimenti, vegetazione e altro materiale organico nelle acque del bacino, marciscono, trasformandolo presto in una sorgente di metano e CO2, che può anche superare il risparmio in gas serra ottenuto dall’uso dell’energia idroelettrica prodotta.

“I costi umani, poi, fra perdita di villaggi allagati, distruzione di attività economiche – la sola diga del Tucurui, in Amazzonia, per esempio, ha fatto diminuire la pesca locale del 60% – sommersione di beni culturali, disfacimento di comunità, tensioni e repressione di proteste, sono spesso enormi, molto più alti di quelli previsti nei progetti: uno studio su 245 dighe costruite fra 1937 e 2007 ha stimato che questi costi sono il doppio di quelli in media preventivati. In totale negli ultimi 100 anni, circa 80 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le loro case a causa delle dighe, mentre almeno 437 milioni sono state danneggiate a valle di esse: solo una minoranza di questi è stato adeguatamente compensato per perdite e danni”, ricorda Moran.

E, come beffa finale, nei paesi più poveri, spesso queste comunità “sfrattate” dalla diga, restano anche senza accesso all’elettricità, dopo che hanno ceduto case e campi per produrla.

C’è anche un risvolto climatico da valutare quando si installa nuovo idroelettrico: come ben sappiamo in Italia questa è una fonte molto dipendente dal meteo, che può alterare drasticamente la sua produttività. Spesso le valutazioni fatte prima della costruzione si rivelano drammaticamente sbagliate, nel quadro prodotto dal cambiamento climatico.

Sta già accadendo con le dighe costruite in Amazzonia, per esempio: quella di Belo Monte sullo Xingu, invece degli 11 GW previsti, marcia a circa 4 GW, a causa delle piovosità molto minore del previsto, indotta anche dalla deforestazione nell’area tutto intorno alla diga.

Insomma il “verde” dell’energia idrica, diventa rapidamente nero, se non si tengono in considerazione i tanti fattori che possono decretarne il successo o il fallimento.

Il riconoscimento dei danni ambientali creati dalle dighe fa sì che oggi nei paesi sviluppati si demoliscano molte più dighe (sono state distrutte 3450 in Europa e 546 negli Usa) di quante se ne costruiscano, mentre i nuovi progetti idroelettrici, in genere di modeste dimensioni, vengono sottoposti a scrutini di ogni genere molto dettagliati, oltre che al controllo della stampa e alla pressione delle comunità locali.

Nei paesi poveri, invece, le dighe, spesso faraoniche, quasi sempre vengono imposte alle popolazioni locali e i miliardi che girano intorno a questi progetti alimentano abbagli, pressappochismo, fretta e corruzione, facendo sì che si sottostimino o si trascurino del tutto gli avvertimenti che arrivano dagli studi di impatto ambientale, economico e sociale.

Ma la conclusione di Moran e colleghi non è però quella di rinunciare al nuovo idroelettrico.

«Si devono piuttosto portare avanti solo progetti preceduti da studi di impatto ambientale e sociale che seguano gli standard dei paesi sviluppati, e solo quelli che passato questo esame, risultino veramente vantaggiosi, nell’arco dell’intera vita dell’impianto, per l’intera popolazione, prevedendo quindi anche adeguate compensazioni e distribuzione di profitti alle comunità locali”.

Anche se seguire questi standard probabilmente falcidierebbe buona parte di quei 3700 futuri impianti in progetto, non è detto che l’energia idroelettrica abbia per forza bisogno di dighe.

Si possono costruire anche molto meno impattanti impianti ad acqua fluente, per esempio, dove parte della corrente viene prelevata a monte, alimenta delle turbine e poi è restituita al fiume.

Nei fiumi profondi, con una velocità della corrente superiore a 1 m/s, è possibile anche installare sul fondo turbine in-stream, che sfruttano l’energia cinetica della corrente, senza necessitare di sbarramenti o canali. Queste turbine ricavano energia senza disturbare l’ecosistema e l’economia fluviale; la loro piccola dimensione può alimentare anche le comunità locali».

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