EPBD: gli obblighi in arrivo per gli edifici, per andare oltre lo scontro da social

L’obiettivo della nuova direttiva europea, che imporrebbe di sestuplicare le ristrutturazioni, è oltre la nostra portata. Ma con i giusti incentivi e qualche correzione potrà portare benefici multipli. Lo spiega il direttore di Fire, Dario Di Santo.

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Di recente si è molto parlato della proposta, deliberata dal Consiglio europeo lo scorso ottobre, di prevedere una classe energetica obbligatoria minima per gli edifici residenziali pari alla E nel 2030 e alla D nel 2033.

Per dovere di cronaca, aggiungo che la decisione del Consiglio include la riduzione dei consumi di energia primaria degli edifici non residenziali del 15% entro il 2030 e del 25% entro il 2034, nonché edifici nuovi a emissioni zero dal 2030 (nel 2028 per l’edilizia pubblica).

Come ormai tristemente usuale si sono subito creati i due blocchi con i totalmente contrari da una parte (“è una patrimoniale”, “causerà effetti devastanti”, ecc.) e gli entusiasti dall’altra (“è una grande opportunità di investimento”, “è essenziale per la decarbonizzazione”, ecc.).

Se tutti mollassimo un po’ l’approccio social e riprendessimo a dialogare, invece di insultarci su punti di vista estremi sbagliati in partenza, potremmo forse ragionare su cosa possa essere utile per un Paese come l’Italia (vedi anche “Direttiva sulle case green: gli attacchi e perché invece deve essere un’opportunità“, ndr).

Le principali misure

Intanto conviene ricordare che la EPBD (Energy performance of buildings directive – direttiva sulle prestazioni energetiche degli edifici) prevede una serie di misure importanti per il settore. Qui ne riassumo alcune.

Si passa dal concetto di edificio a energia quasi zero (NZEB) all’edifico a zero emissioni (a cui corrisponderà la classe energetica A in futuro), in cui si parte dalla ricerca di una domanda energetica molto bassa, compensata dalla produzione rinnovabile locale, in linea con il principio energy efficiency first.

I Paesi membri dovranno produrre dei Piani di riqualificazione nazionali da rivedere ogni cinque anni.

L’attestato di prestazione energetica (Ape) viene rafforzato, sia in termini di obbligatorietà (estensione a tutti gli edifici pubblici), sia in merito all’uniformità di classificazione fra Paesi. Agli immobili sarà anche associato un passaporto sulla riqualificazione, al fine di favorire la pianificazione degli interventi e aiutare gli acquirenti a verificare l’effettivo stato del fabbricato.

Per finire, si spinge ancora di più sull’integrazione fra uso dell’energia, comfort, sicurezza, resistenza ai terremoti e integrazione degli impianti, nonché sulla digitalizzazione. Dunque, un insieme di misure pensate per assicurare che famiglie e lavoratori vivano in edifici che non solo consumano meno, ma sono più salubri, sicuri e intelligenti. E questo è un bene.

Un target ai limiti della fattibilità

Ma cosa prevede in pratica l’obbligo sul parco immobiliare residenziale, se fosse approvato così? Per rispondere a questa domanda conviene fare qualche valutazione.

Partiamo dal periodo pre-pandemia. Dai dati delle detrazioni fiscali sull’Ecobonus si può desumere che gli interventi di riqualificazione energetica di riqualificazione globale, o comunque estesa all’involucro edilizio, variassero fra i 20.000 e 30.000 l’anno. Questo può essere considerato un indicatore in linea con la capacità del mercato di realizzare interventi in linea con un passaggio in classe D.

Nel 2021 gli interventi di questo tipo finanziati con l’Ecobonus sono stati 25.000. Nel frattempo era stato però lanciato il Superbonus 110% a cui si possono attribuire fra 2020 e 2021 circa 45.000 interventi conclusi (escluse unità indipendenti). Considerato che nel 2022 questo numero è quasi quadruplicato, si può ipotizzare che si sia raggiunta una capacità nell’ordine delle 150mila riqualificazioni annuali, forse anche superiore.

Dai dati del SIApe, la banca dati degli Ape che però copre solo un quarto circa degli edifici, si può estrapolare che il numero degli edifici da riqualificare al 2033, nell’ipotesi di portarli tutti in classe D (e di non cambiare l’attuale classificazione, che però è una richiesta della proposta di direttiva), è nell’ordine dei 9 milioni, ossia i tre quarti del parco edilizio nazionale!

In altre parole, occorrerebbe riqualificare 900mila fabbricati l’anno di media.

È evidente che un numero del genere appare impossibile da realizzare: si tratterebbe a prima vista di sestuplicare l’attuale capacità, ma in realtà il coefficiente moltiplicativo sarebbe maggiore, visto che nei primi anni saremmo lontani da questi numeri.

Attenzione che quando si dice sestuplicare non parliamo di modificare formule su un foglio di calcolo, ma di moltiplicare per sei la capacità produttiva e la logistica dei materiali e dei componenti, i ponteggi, i progettisti e gli operai, eccetera.

Per di più in uno scenario in cui non lo farebbe solo l’Italia, ma tutta l’Europa. Quindi, ad essere realisti, l’obbligo così com’è appare di difficile raggiungimento nel nostro Paese.

Serve più flessibilità, ma ci sono gradi opportunità

Il criterio di intervenire in funzione della classe energetica si presta inoltre a disparità fra i Paesi membri e non tiene conto di una serie di aspetti importanti.

Si pensi agli edifici in zona climatica A, B e C, che hanno consumi decisamente più limitati del resto del parco immobiliare. Oppure ai tanti edifici realizzati prima del Novecento, anche se non storici o vincolati, per i quali intervenire sull’involucro può essere difficile senza snaturarne completamente l’aspetto. Parliamo di un insieme nell’ordine del 20-30% del parco totale, per i quali sarebbe utile prevedere delle esenzioni dagli obblighi.

Se fossi il Governo chiederei senza dubbio più flessibilità su questo tema, ma non tirerei i remi in barca sull’opportunità di intervenire. Tutt’altro.

Riqualificare gli edifici costa molto e presenta tempi di ritorno lunghi, in assenza di incentivi. D’altra parte, smuove una grande filiera e contribuisce non solo alla riduzione delle emissioni – elemento prioritario per ridurre i costi dei disastri climatici rapidamente crescenti e potenzialmente ben più devastanti in termini geopolitici di quanto vissuto negli ultimi tre anni – ma anche a consentirci di vivere in edifici migliori (minori costi sanitari e sociali, più benessere reale, più produttività negli ambienti di lavoro, ecc.).

In merito alle ricadute economiche dirette e indirette, basta citare il recente studio del Censis “Ecobonus e Superbonus per la transizione energetica del Paese” che mostra come queste riducano il costo per lo Stato delle detrazioni a circa un terzo. Ciò fa capire come un meccanismo di ecobonus più efficiente potrebbe portare avanti una grande ondata di rinnovamento nel settore edilizio, con benefici per tutti.

Certo, le detrazioni andrebbero riviste per premiare maggiormente le soluzioni più efficaci nella decarbonizzazione e una progettazione attenta alle dimensioni non energetiche e del benessere, non ultima la riqualificazione sismica. A che serve spendere decine di miliardi se si rischia di vederli andare parzialmente in fumo al primo terremoto?.

Come Fire abbiamo già espresso il nostro punto di vista in un recente comunicato (Riqualificazione degli edifici: serve un programma nazionale di supporto).

Personalmente auspico che su temi così importanti si smetta di trincerarsi, che già abbiamo una guerra non lontana dai confini a ricordarci quanto male possa venire dalla mancanza di ascolto e di comprensione reciproca, e si cominci a discutere seriamente su come portare avanti un programma di rinnovamento del Paese.

Abbiamo un grande bisogno di mettere le nostre energie in qualcosa di utile, socialmente inclusivo e costruttivo.

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