Gli Emirati Arabi Uniti, come un po’ tutti i paesi della penisola arabica, vivono un paradosso energetico.
Sono raggiunti ogni giorno da un irraggiamento solare fra i più generosi della terra, sufficiente a coprire con elettricità pulita molte volte il fabbisogno, ma continuano a produrre elettricità soprattutto con fonti fossili.
Tale paradosso è il risultato storico di un’altra abbondante dotazione naturale della regione, quella di petrolio e gas. È un paradosso che peraltro riguarda più o meno direttamente un po’ tutte le macro-aree del mondo – Europa e Italia compresa – ma in paesi come gli Emirati è spinto agli estremi.
Uniti ma diversi
Questa, almeno, è l’immagine che ci rende uno sguardo a volo d’uccello sulla regione. In realtà, come in tutte le unioni di soggetti federati fra loro, calandosi più vicino alle singole realtà locali, ci si accorge che anche gli Emirati presentano differenze piuttosto marcate al proprio interno.
Vediamo come e in che misura le varie realtà emiratine stiano cercando di svezzarsi dalla dipendenza fossile e di alimentare maggiormente la vita sociale ed economica con energie senza emissioni.
Gli emirati dell’Uae sono sette in tutto, ma i principali, quelli che determinano la direzione di marcia, sono due: Abu Dhabi e Dubai. Gli altri componenti degli Uae, gli emirati del nord, sono più poveri e piccoli e vanno sostanzialmente al rimorchio dei primi due. Ma anche fra Abu Dhabi e Dubai ci sono differenze importanti, non ultime sul piano energetico.
Il Dubai ha infatti pochissimo gas e praticamente niente petrolio, oltre ad essere territorialmente molto più piccolo di Abu Dhabi. È soprattutto per questo che negli ultimi 20 anni il Dubai si è dovuto ingegnare per trovare nuove fonti di crescita della propria economia, creando più o meno dal nulla importanti attività finanziarie, turistiche, logistiche, edili e via dicendo.
Abu Dhabi, invece, oltre ad essere l’emirato più grande, ha anche importanti riserve di greggio e gas naturale.
Parlando di gas naturale, da una parte, le riserve di Abu Dhabi sono però per lo più di “sour gas” o gas acido, cioè un gas “sporco”, complicato e costoso da raffinare e per questo molto poco apprezzato sui mercati, tanto che solitamente costituisce una riserva non sfruttata; dall’altra, proprio al confine fra i due emirati è stata invece fatta poco tempo fa quella che potrebbe essere una delle maggiori scoperte di gas degli ultimi decenni. Rimane da capire quanto sia sfruttabile come giacimento, in termini appunto di qualità del gas e della sua attrattiva di mercato.
Sia Dubai che Abu Dhabi, nonostante quest’ultimo abbia il gas in casa, per generare elettricità finiscono quindi per importare molto gas dal vicino Qatar – con cui però i rapporti, soprattutto di recente per tensioni politiche regionali, ma anche in passato, non sono idilliaci. Da queste considerazioni strategiche, prima ancora che ambientali o di decarbonizzazione, il desiderio e la necessità per gli Emirati di diversificare gli approvvigionamenti energetici verso le rinnovabili che, quindi, si sposerebbero ora molto bene con un maggiore bisogno di indipendenza energetica.
Facendo di necessità virtù non solo sul fronte energetico, è anche grazie alla diversificazione più recente dell’economia che gli Uae risultano stabilmente nella top 10 dei paesi più ricchi del mondo, con un Pil pro capite di quasi 70.000 dollari, pur sicuramente aiutati dalle entrate tradizionalmente generate dal petrolio, di cui restano comunque il sesto produttore mondiale.
Obiettivi energetici
È in questo contesto, sospeso fra un passato fortemente radicato nelle fonti fossili e un futuro ancora relativamente acerbo di fonti rinnovabili, che si inseriscono i primi mega-impianti fotovoltaici a terra e gli obiettivi di decarbonizzazione degli Emirati.
Il fiore verde all’occhiello emiratino è rappresentato dal Mohammad Bin Rashid Solar Park, il più grande parco fotovoltaico del mondo, con cui il Dubai ha dimostrato la propria capacità di attuare grossi progetti fotovoltaici, in anticipo sui tempi rispetto a moltissimi altri paesi, visto che la prima fase risale al 2013, e stabilendo anche diversi record mondiali dei prezzi più bassi dell’elettricità prodotta. Il parco è destinato ad avere una capacità complessiva di 5 GW entro il 2030. Le prime tre fasi sono già operative, con la più recente, da 800 MW, allacciata alla rete a fine 2020. Sono in programma anche 700 MW di solare a concentrazione, in parte già realizzato.
La leadership mostrata dal Dubai col Mohammad Bin Rashid Solar Park non sembra però essersi tradotta pienamente in una pianificazione rinnovabile ad ampio raggio. La “Strategia energetica 2050” degli Emirati mira infatti ad aumentare il contributo dell’energia pulita nel mix energetico totale dal 25% attuale al “solo” 50% entro il 2050, riducendo l’impronta di carbonio del settore energetico del 70% e aumentando l’efficienza energetica del 40% entro il 2050.
Già guardando a questi target, e confrontandoli con l’obiettivo di zero emissioni nette dell’Europa nello stesso periodo, per esempio, si capisce che i traguardi che gli Emirati si sono posti non siano al momento particolarmente ambiziosi – considerata anche l’invidiabile dotazione solare, nonché eolica, a disposizione.
Un’impressione confermata dal mix energetico a cui gli Uae puntano al 2050, dove solo il 44% è rappresentato dalle energie rinnovabili, con la restante quota suddivisa nel seguente modo: 38% gas, 12% carbone “pulito” e 6% nucleare, quest’ultimo già in fase di costruzione.
Secondo Climate Action Tracker, gli obiettivi degli Emirati sono “altamente insufficienti“. Ciò vuol dire che l’impegno climatico degli Eau non è coerente con il mantenimento del riscaldamento al di sotto dei 2 °C, né tantomeno di 1,5 °C come richiesto dall’Accordo di Parigi.
Non che la stragrande maggioranza degli altri paesi sia messa molto meglio: secondo l’organizzazione, gli obiettivi europei sono comunque considerati “insufficienti” e quelli degli Emirati sono comunque più ambiziosi di paesi come la Russia, l’Argentina, la Turchia e, fino alla presidenza Trump, anche di quelli degli Stati Uniti.
Se tutti i paesi dovessero però seguire l’approccio degli Eau, il riscaldamento raggiungerebbe probabilmente più di 3 °C e fino a 4 °C, secondo le stime dell’organizzazione, di cui riproduciamo un grafico relativo agli obiettivi climatici degli Uae.
E qui ci si scontra con uno dei maggiori ostacoli “culturali” alla decarbonizzazione: nei secoli passati, i paesi occidentali hanno inquinato in lungo e in largo il mondo con le loro emissioni nocive, e adesso tocca a loro assumersi il peso maggiore della decarbonizzazione – dicono molti nel sud del mondo.
Tale reazione, umanamente comprensibile da parte dei paesi poveri, con meno risorse finanziarie e naturali per far fronte da soli agli ingenti investimenti necessari alla decarbonizzazione, lo è di meno da parte di paesi come gli Uae, che sono fra i più ricchi al mondo, con ingenti risorse sia finanziarie che energetiche pulite e comunque fra quelli che più hanno tratto vantaggio in passato dalle fonti fossili.
Idrogeno per essere all’avanguardia?
L’ambizione di essere all’avanguardia nelle tecnologie energetiche si sta manifestando negli Emirati soprattutto nel comparto dell’idrogeno.
Un impianto pilota per la produzione di idrogeno verde da elettrolisi – uno dei primi al mondo – è in fase di messa in servizio a Dubai, con una capacità prevista di circa 300 kg di idrogeno pulito al giorno.
Abu Dhabi National Oil Co. (ADNOC), il fondo sovrano di Abu Dhabi Mubadala e la holding statale ADQ hanno inoltre firmato recentemente un memorandum d’intesa per stabilire l’Abu Dhabi Hydrogen Alliance, che dovrebbe favorire lo sviluppo soprattutto di idrogeno verde, prodotto con le rinnovabili, e idrogeno blu, prodotto col gas naturale e sequestro, stoccaggio e riutilizzo della CO2.
Come tante altre regioni del mondo, dove attualmente l’idrogeno è un po’ sulla bocca di tutti come rimedio quasi miracoloso per la decarbonizzazione dei settori più diversi, anche gli Emirati dovranno però stare attenti a giocare bene le proprie carte su questo vettore energetico.
Produrre idrogeno verde vuol dire installare e impegnare moltissima potenza rinnovabile solo a questo scopo per decenni.
Se però si usano le rinnovabili per produrre idrogeno verde, ci sarà meno potenza disponibile per produrre elettricità verde, e sappiamo che l’efficienza energetica del vettore idrogeno è molto minore di quella del vettore elettricità. Si rischia quindi che la coperta rinnovabile, già corta di suo nei piani degli Emirati, si accorci ancora di più a favore di un uso relativamente poco efficiente dell’energia primaria, col risultato che la carta dell’idrogeno si riveli più un due di picche che un asso.
Fra l’altro, l’idrogeno farebbe poco per assicurare un maggiore equilibrio di approvvigionamenti energetici fra gli emirati stessi dell’Uae. Dubai è infatti troppo piccolo per ospitare decine di GW di fotovoltaico con cui alimentare gli elettrolizzatori.
Sarebbe quindi Abu Dhabi a installare parchi solari e impianti, e a rifornire Dubai di idrogeno. Poiché le politiche energetiche sono appannaggio dei singoli emirati, però, Dubai passerebbe dal dipendere dal Qatar per il gas a dipendere da Abu Dhabi per l’idrogeno. Una soluzione migliore probabilmente, anche se forse non quanto quella di puntare maggiormente su solare ed eolico a casa propria, per una elettrificazione diretta più spinta dei consumi.
Ma il delicato equilibrio fra rinnovabili elettriche e idrogeno riguarda non solo gli Emirati, ma il mondo in generale.
Dubai fa anche parte del “C40 Cities Climate Leadership Group”, un gruppo di 97 città del mondo che rappresenta un dodicesimo della popolazione mondiale e un quarto dell’economia globale e che si sono impegnate a realizzare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi a livello locale.
Gli emiri del Dubai hanno anche lanciato dei cosiddetti Dubai Future Council, comitati consultivi incaricati di studiare le tendenze socio-economiche globali, anche in campo energetico, con l’obiettivo di anticipare il futuro e modellare in modo corrispondente i settori chiave di Dubai nei prossimi 50 anni.
Iniziative lodevoli, queste ultime, dal punto di vista narrativo e del marketing politico, ma probabilmente troppo flebili per imprimere una vera accelerazione alla decarbonizzazione e alla transizione energetica degli Emirati.
Conclusioni
Rimane la sensazione che gli Emirati scontino un riflesso condizionato orientato alle fonti fossili, un’abitudine radicata a trattare l’energia come qualcosa di ampiamente disponibile, poco costoso e pochissimo tassato.
Ciò è riscontrabile anche nel tipo di sviluppo urbano di questi anni, soprattutto a Dubai, caratterizzato da autostrade cittadine a 12 corsie, una foltissima concentrazione di Suv e super-car, una dispersione degli insediamenti urbani lungo decine di chilometri di costa, grappoli di grattacieli incastonati fra vasti sobborghi di ville e villette con poche vie di mezzo urbanisticamente più sostenibili – un paradiso per le auto insomma e un purgatorio, se non un inferno, per i pedoni, anche se a Dubai esistono due linee di una futuristica metropolitana con una terza in costruzione.
Per attuare una più promettente transizione energetica, bisognerebbe che il gigantismo simbolico chiaramente presente in tanti progetti degli emiri si trasferisse da totem come i grattacieli più alti del mondo a qualcosa di forse meno scenografico ma più concreto, come un sistema energetico a zero emissioni nette entro il 2030, o il 2040, per esempio, se si volesse davvero essere all’avanguardia di una rivoluzione tecnologica verde.
E visto che si tratta pur sempre di sistemi monarchici assoluti, sulla base di come sono riusciti a trasformare un tratto arido di costa, soprattutto a Dubai, in una città super moderna in meno di 20 anni, non è detto che non ci riescano, se solo lo volessero. Se solo lo volessimo, ogni paese per quanto di propria competenza.