DL Rilancio e detrazioni 110%: come “salvare” il Superbonus

Il nuovo maxi incentivo, nella sua stesura attuale, rischia di avere un rapporto costo/efficacia basso e di essere dannoso anche per le aziende. Qualche proposta per correggerlo da Dario Di Santo, direttore di Fire.

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Gli articoli 119 e 121 del decreto Rilancio relativi alle detrazioni fiscali al 110% per la riqualificazione energetica degli edifici rischiano di avere un impatto diverso da quello sperato.

Sarebbe un peccato, perché si tratta di un esempio di un lodevole tentativo di coniugare sostenibilità e ripresa.

Vediamo prima cosa rischia di non andare per il verso giusto, per lo meno sulla base dell’esperienza che ho maturato in questi venti anni di attività nel settore.

L’eccesso di differenza fra le capacità dell’offerta (imprese della filiera, materiali da costruzione, etc.) e la domanda di intervento è il principale problema della proposta originaria.

Da un lato abbiamo infatti un mercato delle riqualificazioni profonde che viaggia sulle decine di migliaia di interventi annui secondo i dati dei rapporti Enea sulle detrazioni fiscali, dall’altra un interesse a intervenire che, se la cessione del credito consentirà effettivamente di offrire lo sconto in fattura, possiamo attenderci almeno nelle centinaia di migliaia.

Uno squilibrio che non potrà che portare a due conseguenze: crescita dei costi e rischio di lavori fatti male (i.e. costo-efficacia basso) e gran numero di scontenti, perché impossibilitati a sfruttare l’occasione a causa dell’incapacità dell’offerta di soddisfare la loro richiesta.

Il mercato speculativo che probabilmente verrà a crearsi, inoltre, difficilmente farà bene alle imprese di settore che, come insegna anche la storia recente sugli incentivi, potrebbero passare dalla festa di un lauto banchetto ai dolorosi sintomi del post sbornia, con una contrazione da gestire invece che una crescita.

Il secondo problema è che il provvedimento sta creando grandi aspettative, ma è tutt’altro che semplice da applicare. Occorre fare funzionare la cessione del credito, chiarire i requisiti di accesso, etc. Nel frattempo, proprio perché la misura è così attraente, i lavori preventivati sono stati bloccati per potere accedere al nuovo incentivo, il che, in un momento di crisi di liquidità per le imprese e di difficoltà a pagare gli stipendi, non è proprio il massimo.

Si può migliorare la situazione, riducendo questi rischi? Sì, anche se non è facile visto l’effetto annuncio e la movimentazione di interessi che già si è avuta.

L’idea dovrebbe essere quella di mettere al centro della proposta la sostenibilità energetica e ambientale, in modo tale che le risorse spese, che giocoforza tenderanno ad essere non ottimali (ma siamo in una fase di crisi e quindi ci sta), producano quantomeno il massimo risultato.

Inutile dire che la proposta di estendere il beneficio alle seconde case andrebbe nella direzione opposta, visto che il beneficio energetico conseguito sarebbe in generale minore rispetto a una prima casa.

L’opzione più percorribile, senza toccare l’entità della detrazione, sarebbe di agire sui requisiti, chiedendo un miglioramento energetico più consistente. Ad esempio, si potrebbe prevedere come condizione minima di ammissibilità la classe energetica dell’edificio migliore fra la B e l’incremento di almeno due classi rispetto a quella di origine (o chiedere direttamente la classe A).

Ciò ridurrebbe la domanda potenziale, garantirebbe di conseguire risultati superiori in termini di costo-efficacia e favorirebbe l’adeguamento delle imprese di settore a interventi di riqualificazione profonda, che è quello di cui abbiamo bisogno per ammodernare negli anni il parco immobiliare perseguendo gli obiettivi di sostenibilità.

Inserire un monitoraggio obbligatorio dei consumi per i cinque anni della detrazione (a prescindere dall’eventuale ricorso allo sconto in fattura) consentirebbe poi di ottenere dati preziosi per comprendere quanto queste misure siano realmente efficaci, aiutando a sviluppare il mercato nei prossimi anni nella direzione più opportuna.

Si tratterebbe di raccogliere i dati sui consumi energetici annui post-intervento (e.g. da parte dell’Enea): un’opzione dal costo limitato ma dalle ricadute potenziali elevate. Ciò permetterebbe di comprendere meglio la relazione media fra i consumi effettivi e il fabbisogno teorico descritto dall’APE e di verificare eventuali problemi e/o opportunità collegate alla gestione e manutenzione degli impianti, in special modo di quelli più innovativi.

Introdurre il requisito di classe energetica più stringente come criterio di accesso, adottando un ragionevole tetto di spesa unico, consentirebbe inoltre di sostituire i tre interventi obbligatori richiesti al momento (coibentazione, pompe di calore/caldaia a condensazione per condomini, pompe di calore/microcogenerazione per edifici unifamiliari), con un approccio tecnologicamente neutrale. Approccio che andrebbe sempre preferito, anche solo per evitare critiche su soluzioni dubbie incluse e su altre meritevoli escluse. E sarebbe una semplificazione.

Un’altra semplificazione si potrebbe conseguire evitando di introdurre controlli documentali contorti e complessi che, se previsti, finirebbero per rendere tutto più difficile e contribuirebbero più ad aumentare i costi che a produrre benefici. Meglio puntare a controlli documentali semplici, anche sulle imprese coinvolte nei lavori (diffidando di quelle nate “ora” e accertando che siano imprese “reali”), e a verifiche sul campo sulla bontà dei lavori svolti. Anche qui la storia recente sugli incentivi può dare indicazioni.

A prescindere da cosa viene scritto nella legge, infine, è fondamentale che la cessione del credito funzioni e possa essere incamerata dalle imprese rapidamente, o lo sconto in fattura si vedrà poco e la misura finirà per essere fallimentare, sia in termini di edifici riqualificati e utenti soddisfatti, sia in merito alle imprese aiutate a uscire dalla crisi e a crescere in un settore importante come quello dell’edilizia. Dunque va messa a punto una prassi efficace da parte delle agenzie coinvolte.

Ciò premesso, sono convinto che alzare leggermente le detrazioni classiche dell’ecobonus, garantendo la cessione del credito con sconto in fattura (stesso meccanismo previsto per il 110%: ad esempio 72-75% alla banca, 65% in fattura), avrebbe movimentato il mercato senza i probabili effetti negativi che ci creeranno ora, consentendo uno sviluppo della filiera di settore più sostenibile e lasciando risorse da spendere, per esempio, in digitalizzazione e reti.

E non avrebbe richiesto tutte le aggiunte normative necessarie con la nuova misura, che introducono un freno ai lavori proprio quando è fondamentale mandare avanti le attività. Quando si parla di politiche, però, l’ottimizzazione dell’esistente e la semplificazione difficilmente entusiasmano. Troppo forte l’attrazione del nuovo con le sue promesse – salvo poi accorgersi che tutte le misure presentano un conto e ricordarsi che le sirene non cantavano solo per il sollazzo dei naviganti – e troppo faticoso rinunciare ad articolati legislativi lunghi e arzigogolati.

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