Contrordine… i biocombustibili sono buoni?

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Una ricerca israeliana-statunitense considera l'uso di etanolo o di elettricità ricavabili da coltivazioni di erbe spontanee e molto produttive e parla di notevoli benefici in termini di emissioni. Uno sviluppo che non convince T&E.

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I biocombustibili stanno alla scienza dell’energia, un po’ come la carne rossa a quella dietetica.

Ogni pochi giorni, infatti, esce fuori una ricerca che condanna bistecche e filetto come dannosi per la salute (oltre che per l’ambiente), seguita a ruota da una che li riabilita.

Una cosa simile accade per i biocombustibili, cioè i combustibili di origine vegetale, come l’etanolo derivato dalla fermentazione di zuccheri o cellulosa o il biodiesel ricavato dagli oli vegetali a cui, se vogliamo possiamo ora aggiungere anche l’elettricità per caricare le batterie delle auto elettriche, ricavata bruciando masse vegetali in centrali termiche, come quelli che usano legno da alberi a crescita veloce.

Ebbene, i biocombustibili sono stati severamente criticati in questi anni, e spesso dipinti come una falsa soluzione ai problemi climatici e ambientali, anche se con distinguo fra le tante forme che possono assumere.

Per esempio il bioetanolo da mais, che negli Usa viene addizionato alla benzina, secondo molte ricerche emette quanta e più CO2 dei derivati da petrolio, a causa delle sue scarse rese e dell’input energetico fossile per la coltivazione e la trasformazione.

Meglio il bioetanolo da canna da zucchero, per le alte rese di quella pianta nei climi caldi, e ancora meglio quando il bioetanolo viene ricavato, con processi più complessi dalla molto più abbondante celluosa., invece che solo da zuccheri o amico

Critiche simile sono state rivolte ai biodiesel da oli vegetali, in certi casi, come quello da colza, per la sua scarsa resa, e in altri, come quello da olio di palma, per la distruzione ambientale associata alla loro coltivazione,.

E, più in generale, si fa notare che la coltivazione di piante per i biocombustibili, su una scala abbastanza grande da fare la differenza, entra in competizione con la produzione di cibo o con le aree naturali, e quindi può produrre gravi danni sociali o ambientali.

Adesso però il pendolo oscilla di nuovo verso i benefici dei biocombustibili, con una ricerca, pubblicata su Environmental Science and Technology, svolta in diverse località del Midwest Usa e coordinata da Ilya Gelfand, agronomo della israeliana Ben-Gurion University of the Negev.

La ricerca ha considerato l’etanolo o l’elettricità ricavabili da coltivazioni di erbe molto rustiche e molto produttive, come il panico-verga e il miscanto, alberi come i pioppi, residui della coltivazione del mais, o mix di erbe spontanee tipiche delle praterie Usa.

Le coltivazioni sono state testate in diverse condizioni di clima e terreno, prendendo in considerazione tutti i fattori legati alle emissioni: dal combustibile di camion e trattori (ma la coltivazione considerata è di tipo “no aratura”, per minimizzare il rilascio di CO2 dal terreno) fino all’energia usata per produrre i fertilizzanti e per trattare le biomasse.

«Ebbene, i risultati sono stati estremamente incoraggianti, sia pure con ampie forchette di dati, a secondo dei vegetali considerati», dice Gelfand.

«L’etanolo da fermentazione della cellulosa di queste specie, usato come carburante, consente una riduzione delle emissioni rispetto al petrolio fra il 78 e il 290%. Se alla produzione di etanolo si aggiunge il CCS, per sequestrare la CO2 prodotta dagli impianti industriali di conversione nel sottosuolo, la riduzione di emissioni sale al 204-416%».

E aggiunge che «veicoli elettrici alimentati con energia ottenuta da queste biomasse avrebbero una riduzione del 74-303% rispetto a quelli alimentati da elettricità prodotta con olio combustibile, e se alle centrali a biomassa si applicasse il CCS, si arriverebbe a una riduzione del 329-558% rispetto ai fossili».

Si spiega che la riduzioni delle emissioni superiori al 100%, indicano che l’uso di quel biocombustibile, porta all’assorbimento e sequestro netto di CO2 dall’aria, stoccandola nel terreno come radici e parti inutilizzate della pianta, o con l’immissione diretta del CCS. Così una riduzione del 300% vuol dire che non solo si azzera le emissioni di CO2 da benzina, ma se ne sottrae anche il doppio dall’aria.

Delle sette varietà di piante o mix di piante considerate, la migliore è risultata il miscanto (un’erba che cresce fittissima e fino a tre metri di altezza, seguita dal panico-verga, dalle erbe spontanee di prateria, e infine dai pioppi e dagli scarti del mais.

Secondo i ricercatori, quindi, se gli Usa coltivassero su larga scala queste piante erbacee, potrebbero decarbonizzare buona parte del loro trasporto leggero su strada.

Confronto con ricerche sui biocombustili

Ma come si conciliano questi risultati con le ricerche precedenti, che erano molto critiche nei confronti dei biocombustibili?

«Stiamo parlando di cose molto diverse», dice Gelfand. «Noi abbiamo calcolato le emissioni, non per etanolo da mais o biodiesel da oli, ma per l’utilizzo di erbe spontanee, che crescono con poche cure, e non richiedono neanche di essere ripiantate anno dopo anno, essendo perenni. La produzione di etanolo dalla loro cellulosa, o dell’elettricità dalla loro combustione diretta, porta ai risultati che abbiamo pubblicato, e di cui siamo sicuri, perché ci sono costati cinque anni di lavoro e sono stati accuratamente rivisti da altri ricercatori».

Però c’è da considerare l’occupazione di suolo, che viene sottratto alla produzione di cibo o alle riserve naturali.

«La competizione per il suolo è un argomento molto complesso e importante. Ma è proprio per questo che noi abbiamo puntato su quelle varietà di piante endemiche del Nord America, che crescono su terre povere e marginali, inadatte all’agricoltura. Ovviamente sappiamo che anche quei terreni hanno una grande importanza ecologica, e non possono certo essere convertiti in massa per la produzione energetica. Ma noi non proponiamo di sostituire tutti i combustibili fossili nei trasporti coni biocombustibili, ma di produrne abbastanza da ridurre le emissioni, e fargli fare da ponte in attesa che i trasporti diventino del tutto elettrici e alimentati da energia rinnovabile».

E c’è chi critica questa impostazione

Il piano sembra convincente, ma Cristina Mestre, esperta di biocombustibili all’associazione Transport&Enronment non è molto d’accordo.

«Può anche darsi che a livello di coltivazioni pilota, queste piante mostrino benefici teorici di riduzione delle emissioni, ma questo non rappresenta ciò che accadrebbe nel momento in cui le piantagioni fossero allargate per la produzione di massa. Inevitabilmente queste piantagioni tenderebbero a crescere e crescere, erodendo il poco terreno che resta allo stato naturale, e che è prezioso sia come spazio sicuro per la biodiversità che come difesa contro gli eventi meteo estremi che diventeranno sempre più frequenti. Quello spazio va fatto crescere, non messo a rischio da nuovi tipi di coltivazioni», afferma l’esperta di T&E.

«Inoltre, comunque li si configuri, è inevitabile che, per i limiti della fotosintesi e la complessità dei processi industriali necessari, l’efficienza di conversione della luce solare in energia ottenuta con i biocombustibili sia molto bassa e richieda quindi sempre molto più spazio di quello che serve a un’equivalente produzione di elettricità con fotovoltaico o eolico. La strada è quindi una sola: elettrificare i trasporti e alimentarli con energia veramente rinnovabile».

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