Come reggerà il sistema elettrico in periodi di siccità di vento e sole?

A dicembre la scarsa produzione di fotovoltaico ed eolico ha fatto impennare i prezzi elettrici in quasi tutta Europa. Come affrontare in futuro questi periodi senza far lavorare troppo le centrali a gas? Ne abbiamo parlato con Nicola Armaroli.

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Chi opera nelle rinnovabili teme molto le siccità. Non solo quelle “classiche”, causate dalle scarse precipitazioni che impattano sulla produzione idroelettrica come nel 2021-2022, ma in futuro soprattutto, la “siccità” contemporanea di sole e vento, che fa crollare insieme produzione fotovoltaica ed eolica.

Gli effetti di questa sorta di siccità li abbiamo visti bene nei giorni scorsi: il solare è ai minimi termini per motivi di calendario e meteo, e a questo, a più riprese, si sono sommati periodi di diversi giorni in cui il vento era quasi azzerato in varie nazioni europee.

Risultato: per compensare la mancanza di queste due fonti ormai indispensabili nel mix elettrico di così tanti paesi del continente, le centrali a gas hanno lavorato a pieno regime.

Così il Pun dei vari paesi è schizzato alle stelle. In Italia ha toccato 180 €/MWh l’11 dicembre, in Germania, il 12 dicembre, fra le 8 e le 17 è variato fra 415 e 630 €/MWh, mentre, nelle stesse ora in UK, ha oscillato fra 405 e 980 €/MWh, probabilmente a causa dell’accensione dei costosissimi “peaker”, le turbogas.

E pure con il nucleare, la Francia ha avuto in quei giorni un Pun medio-alto come quello degli altri Paesi, perché gli 8-10 GW di gas che le sono stati indispensabili per soddisfare tutta la domanda sono andati a formare il prezzo finale.

A salvarsi, almeno parzialmente, sono stati solo Spagna e Portogallo, colpiti dalla siccità di eolico e solare come gli altri, ma protetti da aumenti eccessivi del Pun dalla loro riforma del meccanismo della sua determinazione che ha calmierato gli aumenti fermandoli intorno a 140 €/MWh nei giorni 11 e 12 dicembre.

Ciò che preoccupa non è tanto l’aumento del Pun che, in fondo, essendo durato solo pochi giorni, avrà ripercussioni economiche limitate. Ma piuttosto ciò che viene da domandarsi è: cosa faremo in situazioni simili, quando il metano fossile sarà stato quasi completamente sostituito dalle fonti rinnovabili? Se in certi giorni mancheranno contemporaneamente sole e vento, dove prenderemo l’elettricità che ci serve?

Lo abbiamo chiesto a Nicola Armaroli, chimico e dirigente di ricerca del Cnr, che da anni studia la transizione energetica, facendo una preziosa opera di comunicazione scientifica su questi temi (si veda anche nostra video intervista insieme a Gianni Silvestrini).

Dottor Armaroli, quanto abbiamo visto in questi giorni lo dobbiamo considerare un anticipo di possibili guai futuri?

Non direi. Si tratta di brevi periodi di scarsità contemporanea di sole e vento, che si presentano quasi tutti gli anni nella stagione invernale e che raramente sono estesi a livello continentale. Una diffusa carenza di vento in Europa è causata di solito da un’estesa alta pressione centrata tipicamente sulla Germania, che porta però giornate soleggiate sulle nazioni mediterranee. Già questo ci può indicare una prima strada per ridurre gli effetti di queste situazioni: interconnettere sempre di più le nazioni europee, includendo anche il Nord Africa, così che l’estensione geografica della rete di approvvigionamento riduca le possibilità di ‘siccità’ diffusa.

Però stavolta l’assenza di vento è arrivata proprio nel periodo dell’anno in cui ci sono meno ore di sole. Quindi neanche avere più interconnessioni ci avrebbe salvato.

E infatti, quella è solo una delle strade da percorrere. Una più generale è abbandonare l’idea che il futuro sarà paragonabile al presente: oggi abbiamo un sistema elettrico basato sulla domanda, per cui tutta l’energia che vogliamo ci deve essere fornita in ogni momento, con picchi di richiesta, slegati ai picchi di offerta di sole e vento. Domani il sistema elettrico sarà principalmente basato sull’offerta: adatteremo le nostre attività ai momenti in cui c’è più produzione di energia, anche perché in quei momenti costerà molto meno. Già oggi gli utenti ‘distaccabili’ smettono di assorbire elettricità quando viene loro richiesto per mantenere in equilibrio la rete, a fronte ovviamente di incentivi tariffari.

La “siccità” della prima metà di dicembre è stata però veramente impressionante: in Italia in certe ore siamo arrivati a 30 GW di elettricità da gas, come si fosse tornati a trent’anni fa. Difficile capire con cosa sostituire una tale potenza…

Presto non sarà più così: secondo il Pniec, l’Italia al 2030 dovrebbe avere circa 79 GW di fotovoltaico e 28 GW di eolico, contro i 36 e 13 attuali. Questo vuol dire che, anche in situazioni di poco sole e poco vento, la produzione da queste due fonti sarà maggiore dell’attuale, e quindi sarà minore la richiesta di gas. Fra l’altro ci saranno diversi gigawatt di eolico offshore, e sul mare difficilmente il vento si ferma completamente, specialmente in inverno. La parte da coprire durante le siccità eolico-solari, con gas o altre rinnovabili, non arriverà quindi più ai livelli percentuali che vediamo oggi.

Comunque il divario, anche se ridotto, esisterà ancora. Come lo si compenserà senza metano?

Ci possono essere diverse soluzioni: la prima è ovviamente quella degli accumuli elettrochimici e di altro tipo, che non a caso stanno crescendo notevolmente in tutto il mondo. Oggi li usiamo su scala giornaliera, per spostare la produzione dalle ore di picco di offerta a quella del picco di domanda. Ma nulla vieta in futuro, se converrà agli operatori, usarli anche per spostare di qualche giorno l’energia accumulata in periodi di molto sole o vento a periodi in cui questi sono scarsi. Il tutto favorito da previsioni meteo che saranno sempre più accurate sul medio-lungo termine rispetto ad oggi.

Quale ruolo possono giocare le rinnovabili programmabili?

Un ruolo importantissimo. Non tanto l’idroelettrico di grande potenza, che non potrà espandersi molto oltre il livello attuale. Penso piuttosto a biomasse, biogas e biometano da rifiuti e scarti agricoli e industriali, ma anche al legname forestale che in Italia è significativo, ovviamente all’interno di una gestione sostenibile delle foreste. Inoltre, in Italia, ma non solo, c’è la risorsa largamente inutilizzata della geotermia, sia come fonte di elettricità, disponibile H24, che di calore. Mi sfuggono i motivi per cui in Italia quest’opzione venga sostanzialmente ignorata. E si preferisce parlare di nucleare, spesso in maniera piuttosto superficiale.

In effetti oggi il nucleare viene presentato come un inevitabile complemento di sole e vento…

Lasciando da parte le questioni della gestione delle scorie, della accettabilità sociale e della possibilità di incidenti, oggi il nucleare è una tecnologia molto più costosa delle rinnovabili. Questo non cambierà nell’opzione, per ora solo teorica, delle centrali di piccola taglia, presentata come soluzione definitiva ai dilemmi dell’atomo. Se il nucleare ‘piccolo’ fosse più economico di quello grande, lo avrebbero già fatto da decenni. Il nucleare, quindi, difficilmente potrà essere la soluzione: per almeno nove mesi l’anno avremo una sovrabbondanza di rinnovabili, che produrranno a costi molto bassi, irraggiungibili per le centrali atomiche. E anche se in giornate di siccità rinnovabile potrebbe far comodo avere la produzione da nucleare, non basteranno certo quei brevi periodi per renderle queste centrali economicamente sostenibili. Alla fine, ci infiliamo sempre nello stesso angolo: il nucleare sulla carta sembra l’opzione migliore, ma nel mondo reale tutto diventa molto più complicato.

E per quanto riguarda l’idrogeno?

Produrre idrogeno con elettricità è energeticamente dispendioso, e quindi costoso, per non parlare degli enormi investimenti necessari per installare elettrolizzatori, gasdotti adeguati e sistemi di stoccaggio. Però l’idrogeno sarà un’opzione chiave per assorbire l’enorme eccesso di elettricità che si produrrà nei periodi di abbondanza di sole e vento. Immagino che negli attuali depositi sotterranei di metano si potrebbe ospitare innanzitutto biometano, con cui, secondo alcune stime, l’Italia potrebbe coprire fino a un settimo degli attuali consumi di gas, e una percentuale di idrogeno verde compatibile con l’uso delle attuali infrastrutture. Sui tempi più lunghi dovremo anche puntare al metano sintetico, prodotto da idrogeno verde e CO2 di scarto, attraverso il processo catalitico Sabatier. Biometano e metano sintetico rinnovabile dovrebbero poi essere utilizzati per alimentare le attuali centrali termoelettriche a gas, in quei brevi periodi di siccità di sole e vento.

Il fatto che quei periodi siano sempre più brevi pone però un altro problema: come si fa a rendere economicamente sostenibile una filiera energetica che lavora solo pochi giorni l’anno?

Non sarebbe una novità. Già oggi le centrali ‘di picco’ a gas fanno questo mestiere, entrando in funzione, sebbene a costi elevati, solo quando le altre fonti non ce la fanno a coprire la domanda. Oppure vengono sovvenzionate per rimanere in riserva, e sostituire altri impianti in caso di guasti. Un domani le centrali a gas, che a differenza delle nucleari esistono già, faranno lo stesso quando le rinnovabili saranno insufficienti, utilizzando però il mix di biometano, metano sintetico e idrogeno. Ovviamente questi impianti faranno pagare caro il proprio kWh, senza comunque creare danni rilevanti all’economia, visto i limitati periodi di tempo in cui saranno in uso.

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