Negli Stati Uniti, governati dal negazionista climatico Donald Trump, ci sono due importanti enti statali, la NASA e il Pentagono, che sono invece preoccupati per il global warming di origine antropica.
C’è anche un ente scientifico privato, il Rocky Mountain Institute, secondo il quale si dovrebbe far conoscere l’“embedded CO2” di ogni prodotto, cioè la quantità di anidride carbonica che la sua produzione ha fatto emettere. Un modo per consentire ai consumatori ambientalmente scrupolosi di preferire quei prodotti che ne hanno meno.
Una richiesta determinata dalla consapevolezza che il maggiore danno climatico – in emissioni di CO2 – non lo causa l’uso di certi prodotti industriali ad alto costo energetico, bensì, e di gran lunga, la loro produzione.
Caso tipico, le automobili, i cui costi energetici medi sono molto alti: 30.000 kWh ciascuna secondo Wikipedia.de (v, Beispiele) e ben 76.000 kWh secondo il professor MacKay dell’Università di Cambridge.
Ebbene, la differenza fra le emissioni di CO2 per km percorso di una vecchia auto e quelle di una elettrica è al massimo di 300 grammi; e poiché in media a livello mondiale per ogni kWh generato si hanno 500 grammi di CO2 , anche i “soli” 30.000 kWh di costo energetico unitario stimati fanno sì che produrre una nuova auto faccia emettere, in base ad una media mondiale, 15 tonnellate di CO2, cioè 50mila volte di più, e in poco tempo, di quanto avrebbe emesso la vecchia auto durante molti anni di uso.
Se in un anno si percorrono 10.000 km e il valore di emissioni co2 auto è, ad esempio di 100 grammi, ci vorranno almeno 15 anni di utilizzo per pareggiare i consumi di CO2 emessi per la sua fabbricazione.
Oppure nel caoso dell’auto elettrica, solo dopo aver percorso 50mila km avrà “compensato” le emissioni di CO2 conseguenti al suo costo energetico (n.b. sul piano quantitativo, ma non su quello temporale, che è importante perché la persistenza della CO2 in atmosfera è stimata fra i 50 e i 200 anni).
Quindi oggi – e fino a quando il mix energetico mondiale sarà formato in prevalenza da fonti fossili – si danneggia il clima migliaia di volte di più producendo un’auto nuova che lasciandone circolare una vecchia.
A conclusioni analoghe (“la produzione di beni e servizi deve essere ridotta anziché aumentata, soprattutto nei Paesi ricchi” e perciò “sostituire l’aspirazione alla crescita con quella alla sufficienza”), è arrivato un recente studio fatto eseguire dall’European Environmental Bureau, una rete di oltre 140 associazioni ambientaliste, di 30 Paesi, fra cui 4 italiane.
Gli autori hanno esaminato tutta la documentazione disponibile, teorica e sperimentale, sul tema e hanno anche concluso che nulla autorizza a ritenere che il progresso abbia “disaccoppiato” le attività umane dalle sue conseguenze ambientali.
Si dimostra quindi infondato un presupposto dato per certo nel deliberare i più importanti provvedimenti “ambientali” emanati nel mondo: quello secondo cui la crescita economica non avrebbe conseguenze dannose per l’ambiente e il clima.
Una smentita clamorosa, presentata e spiegata agli italiani da un bell’articolo di Francesco Paniè pubblicato sull’edizione on line dello speciale “Tuttogreen” de La Stampa.
Nessun italiano faceva parte dei sette autorevoli ricercatori che hanno realizzato lo studio. Ma anche da noi si esamina a fondo la materia. Anzi, giusto un anno prima di loro Vincenzo Balzani, uno dei cento chimici più citati al mondo in lavori scientifici e Accademico dei Lincei, aveva pubblicato “Salvare il Pianeta”, un lungo studio nel quale egli raccomandava, fra l’altro, “sobrietà”, parente stretta della “sufficienza” indicata dall’EEB. Uno studio purtroppo del tutto ignorato dalla grande informazione generalista nazionale.
Riguardo al forzato rinnovo del parco circolante privato, sostenuto da governi nazionali e amministrazioni locali di ogni colore politico e ottenuto col “bastone” del blocco alla circolazione delle auto “datate” e con la “carota” degli incentivi in denaro pubblico, si deve aggiungere che:
- esso è in corso, da molti anni, in solo 8 dei 28 Paesi Ue – fra cui i 5 più importanti – a riprova che non è stata la Ue ad imporlo, come invece spesso si è fatto o lasciato credere ai cittadini;
- esso è una manna non solo per le case produttrici, ma anche per i commercianti di auto usate; i quali possono acquistare per pochi soldi le auto bloccate negli otto Paesi “eco rigorosi” e rivenderle con grossi margini negli altri 20, o fuori Ue (ad esempio in Africa), dove esse continueranno ad emettere inquinanti e CO2 (sul piano globale, quijndi nessun vantaggio ambientale); da notare che le autovetture radiate dal PRA “per esportazione” sono state (fonte Aci) 564.234 nel 2013, 424.957 nel 2014, 397.161 nel 2015, 402.129 nel 2016 e 427.545 nel 2017;
- promuovendo gli acquisti di nuove vetture e la rottamazione delle vecchie, si violano i due fondamenti dell’economia circolare (adottata dal Parlamento Europeo “come modello di sviluppo del futuro” il 10 luglio 2015 e approvata all’unanimità dalla Commissione Ambiente del nostro Senato il 14 giugno 2016): “Utilizzare il più possibile l’esistente” e “Produrre il meno possibile di rifiuti“. E un’auto rottamata è un “rifiuto speciale inquinante” che pesa almeno una tonnellate e occupa almeno 6 metri quadri di territorio. Eppure, sebbene esista una Associazione Italiana per lo Sviluppo dell’economia circolare non mi risulta (ma sarei ben lieto di essere smentito) che essa si sia mai opposta a quel massacro; come non se ne sono mai occupate, che mi risulti, fosse anche solo per avanzare qualche dubbio, le dodici associazioni per la difesa dei consumatori operanti in Italia.
- esso sarebbe in contrasto con lo spirito dell’articolo 25, comma 2, della Costituzione (non retroattività delle Leggi), dato che quando le vecchie auto erano state acquistate nessuna norma lo vietava (anzi le diesel erano consigliate), e con l’art. 24 del Codice del Consumo (pratiche commerciali aggressive); due aspetti che ne mettono almeno in dubbio la stessa liceità.