Nel 30% del mondo il Pil aumenta e le emissioni si riducono. Eppure non ci siamo

Secondo uno studio del Potsdam Institute for Climate Impact quasi il 30% delle aree subnazionali, pari al 44% delle emissioni e il 38% del Pil mondiale, ha un'economia ormai disaccoppiata dall’uso delle fonti. Ma le buone notizie finisco qui.

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Una buona notizia, che poi tanto buona non è, almeno come sembrerebbe ad uno sguardo superficiale.

Questa è l’impressione che si ha leggendo i risultati della ricerca apparsa su Pnas, condotta dall’economista Maria Zioga, il data analyst Maximilian Kotz, e il fisico Anders Levermann, del Potsdam Institute for Climate Impact, che hanno voluto verificare che effetto abbia sull’economia delle nazioni ridurre le emissioni di CO2, e quindi l’uso di combustibili fossili.

In altre parole, con lo studio “Observed carbon decoupling of subnational production insufficient for net-zero goal by 2050” hanno cercato di capire se le obiezioni di chi vuole evitare, limitare o rimandare il più possibile la transizione energetica verso le rinnovabili, poiché la ritiene incompatibile con il mantenimento del benessere economico e dell’occupazione, fossero fondate o meno.

“Per arrivare alle nostre conclusioni, abbiamo analizzato i risultati economici di 1500 aree sub nazionali fra il 1990 e 2020, incrociandoli con le corrispondenti emissioni di CO2, che rappresentano l’85% di quelle globali”, ci spiega Kotz.

“Abbiamo scelto il livello subnazionale, come per esempio il Sud Italia, la Baviera o il Midwest americano, invece di quello nazionale, perché permette di capire meglio i fattori che determinano il successo o meno delle diverse politiche climatiche”.

Una volta analizzati i dati, i ricercatori hanno assegnato queste aree del mondo a tre categorie:

  • aree che hanno disaccoppiato crescita economica dall’uso di combustibili fossili (il Pil cresce, la CO2 cala)
  • aree che hanno parzialmente disaccoppiato crescita economica da uso di fossili (la CO2 cresce ancora, ma meno del Pil)
  • aree non disaccoppiate (la CO2 cresce più del Pil).

Ed ecco la buona notizia riassunta dal ricercatore: “quasi il 30% delle aree subnazionali, pari al 44% delle emissioni e il 38% del Pil mondiale, ha una economia ormai disaccoppiata dall’uso di combustibili fossili e, quindi, a crescere pur emettendo sempre meno CO2. Un altro 52% delle aree è parzialmente disaccoppiato, mentre solo il 3% del campione continua a legare la crescita economica all’uso delle fonti fossili”.

Questo trend positivo è chiaramente evidenziabile in quanta CO2 ci voglia per creare un dollaro (del 2015) di ricchezza: fra il 1990 e il 2000 ne servivano 0,68 kg, fra il 2000 e il 2010 si era scesi a 0,52 kg; nel decennio successivo si è arrivati a 0,39 kg.

Peccato però che, in parallelo, il Pil mondiale sia cresciuto enormemente, così che in termini assoluti oggi si emetta globalmente più CO2 che nel 1990.

“Le ragioni per questo calo di emissioni per unità di prodotto sono in una maggiore efficienza nell’uso dell’energia, nell’impiego di materiali meno energivori, come la plastica al posto di vetro e metalli, nell’avvento delle tecnologie digitali e nelle massicce installazioni di impianti a fonti rinnovabili a partire dal 2010”, precisa lo statistico tedesco.

Le regioni del mondo dove più si sono fatti progressi verso la sostenibilità climatica sono soprattutto nell’Unione europea, mentre Nord America e Asia risultano molto più a macchia di leopardo, con aree costiere più avanzate sulla strada della decarbonizzazione rispetto a quelle interne.

“In generale si può dire che la transizione energetica stia progredendo nelle aree ricche, che possono permettersi gli investimenti necessari ad attuarla, e dove c’è una incisiva politica climatica, che obbliga a muoversi in quella direzione”, dice Kotz.

Però ci sono anche altri fattori. “Per esempio – spiega – si progredisce di più dove ci sono città che hanno politiche autonome per la riduzione della CO2, mentre in molti paesi, come Sudafrica o Brasile, le grandi differenze economiche fra le varie regioni delle nazioni, non compensate da una forte azione di governo, fanno sì che ci siano progressi molto diseguali. Le nazioni europee internamente sono invece più omogenee”.

Quindi va tutto bene? Prima o poi tutti imiteranno l’Europa e la crisi climatica si risolverà?

“Purtroppo, il nostro studio evidenzia che anche nelle regioni più avanti nella transizione energetica, il progresso di riduzione della CO2 non procede a velocità sufficiente a raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, come previsto dagli accordi di Parigi”, afferma il ricercatore del Potsdam Institute.

Fa alcuni esempi anche ipotizzando un possibile e ragionevole aumento degli sforzi attuali. Secondo lo studio il “net zero” lo raggiungeranno nei tempi previsti solo Inghilterra, Olanda, Danimarca e i paesi scandinavi, mentre avverrà solo in alcune aree di Francia, Germania, Italia e Spagna. Quasi tutto il resto d’Europa raggiungerà invece il target molto tempo dopo”.

Per esempio, il Mezzogiorno italiano, e la parte sud-occidentale della Pianura Padana, ci arriveranno forse nel 2075. Peggio ancora il trend fuori dall’Europa: regioni del mondo come Brasile, Canada Centrale, Turchia, Egitto meridionale, Mongolia e South Australia, rischiano di raggiungere il net zero addirittura nel 2200.

Al tempo stesso, però, gran parte della Cina e degli Usa, da qui al 2050, sembrano essere in grado di far meglio di noi europei quanto a decarbonizzazione dell’economia.

“Insomma – conclude Kotz – non possiamo più rilassarci e farci i complimenti per quanto siamo stati bravi: anche noi europei siamo molto indietro rispetto a quanto dovremmo fare. Dobbiamo indirizzare ogni nostro sforzo per accelerare la decarbonizzazione in casa e spingere in quella direzione il resto del mondo, altrimenti la crisi climatica e suoi effetti finiranno per travolgerci”.

Il ricercatore tedesco si è astenuto poi dal girare il coltello nella piaga, evitando di citare un’altra parte del suo studio, quella dove si riconosce che buona parte dei progressi compiuti dall’Ue sulla strada della decarbonizzazione, derivano dal fatto che fra il 1990 e oggi, molte delle merci che compriamo le producevamo in casa, con un notevole rilascio di CO2 in atmosfera, mentre oggi le importiamo dall’estero, soprattutto dalla Cina.

Abbiamo delocalizzato non solo le industrie, ma anche le emissioni, sembrando così più green di quanto non siamo nella realtà.

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