Lo sviluppo del biogas in Italia ha suscitato, soprattutto nell’ultimo anno, polemiche molto accese. In ogni Regione sono sorti comitati e recentemente si è creato in Umbria anche un coordinamento nazionale contro il biogas, Terre Nostre, molto attivo tramite vari blog, si veda per esempio sgonfiailbiogas.blogspot.com. Questi blog ospitano documenti di medici, docenti e ricercatori universitari, la cui competenza sui processi di digestione anaerobica e sui suoi risvolti sanitari è piuttosto discutibile – testimoniata dall’assenza in genere di pubblicazioni scientifiche dei suoi promotori sul tema -, ma che per il fatto di presentarsi in veste accademica attribuiscono autorevolezza alle tesi di opposizione radicale. È un fenomeno che sta condizionando le scelte di molti amministratori regionali e locali che, un po’ per ignoranza un po’ per pavidità, adottano politiche dello struzzo nei confronti delle rinnovabili.
Caso esemplare sono le Linee Guida della Regione Marche, che hanno reso pressoché impossibile lo sviluppo di impianti a biogas su gran parte del territorio regionale. Sarebbe sbrigativo liquidare il fenomeno dei comitati con la classica sindrome Nimby degli italiani. Gioca anche questo fattore, ma l’opposizione in parecchi casi è stata alimentata da due ragioni più serie. Innanzitutto, diversi progetti e impianti realizzati negli ultimi anni sono purtroppo ‘cattivi’ impianti. Impianti privi di adeguate strutture di stoccaggio delle materie prime, per cui fonti di odori sgradevoli, impianti alimentati con materiali di svariata e dubbia provenienza, impianti che disperdono gran parte dell’energia termica prodotta o ancora digestati sparsi tal quali sui campi senza il rispetto delle buone pratiche agronomiche. Inoltre, questi impianti spesso sono stati calati in un contesto territoriale senza il minimo coinvolgimento della comunità locale, molte volte gestiti da imprenditori esterni che si sono limitati a prendere in affitto terreni agricoli.
Questo sviluppo distorto è stato in buona parte favorito dal meccanismo di incentivi che era in vigore sino alla fine del 2012. La tariffa piuttosto elevata di 28 c€/kWh concessa a tutti gli impianti al di sotto di 1 MW – indipendentemente dal tipo di materie prime utilizzate e per la sola produzione di energia elettrica – ha scatenato in tutta Italia, qualsiasi fossero le risorse disponibili sul territorio, la presentazione di progetti da 999 kW alimentati 100% a silomais o insilati di altri cereali. Il rendimento in energia per ettaro del mais (20-26 MWhe/ha) consentiva, infatti, con quella tariffa ricavi lordi annui che nessun seminativo per usi alimentari oggi può consentire.
Mais in Maremma, mais sulle colline marchigiane, mais nella piana del Sarno. Questa rincorsa al mais ha generato due effetti negativi: l’occupazione delle terre irrigue migliori e la lievitazione eccessiva dei canoni di affitto dei terreni agricoli, come di fatto è avvenuto in Emilia, Lombardia e Veneto. È indubbio che quella tariffa ha consentito all’Italia di compiere un balzo enorme in tre anni, testimoniato non solo dai 994 impianti esistenti a fine 2012 (dati Centro ricerche produzioni animali – CRPA) per una potenza installata di 750 MW, ma anche dallo sviluppo di una tecnologia nazionale che oggi è in grado di esportare nella stessa Germania. Tuttavia se quella tariffa, come molti di noi chiedevano, fosse stata modulata sul modello tedesco anziché data a tutti indistintamente, lo sviluppo certamente sarebbe avvenuto in forme più equilibrate. Oggi, 2013, all’opposto abbiamo un sistema tariffario modulato, ma talmente vincolante nelle taglie dimensionali, nei criteri per accedere ai premi e nel tipo di materie prime utilizzabili, che il risultato è il blocco degli investimenti nel biogas.
Legambiente, che ha sempre ritenuto una priorità strategica lo sviluppo delle rinnovabili nel nostro Paese, non poteva rimanere estranea all’aspro confronto che si è aperto in numerosi territori italiani. Dopo una lunga discussione interna che ha coinvolto l’assemblea nazionale e il comitato scientifico, abbiamo varato un documento sul biogas, indicando quelli che a nostro parere sono i “Criteri per una produzione sostenibile”. Lo abbiamo presentato la prima volta l’aprile scorso in Umbria, epicentro della contestazione al biogas, confrontandoci con agricoltori, amministratori e comitati, e lo stiamo presentando in vari contesti diciamo ‘problematici’. Partiamo da una premessa fondamentale: il biogas è un’opportunità straordinaria per il nostro Paese, per almeno tre motivi.
Innanzitutto, il biogas può dare un contributo fondamentale all’uscita dell’Italia dal fossile e nell’immediato alla riduzione dell’utilizzo di fonti fossili, in quanto è una fonte rinnovabile non intermittente – come del resto le biomasse solide e liquide – ,che può produrre elettricità giorno e notte per tutto l’anno.
Il biogas, oltre ad aiutarci nel raggiungimento del 17% di energia da rinnovabili al 2020, è l’unica fonte che può consentire all’Italia quantomeno di avvicinarsi all’altro obiettivo fissato dall’Unione Europea al 2020, ossia il 10% sul consumo energetico finale nel settore dei trasporti. Le tecnologie di depurazione del biogas, ormai consolidate, consentirebbero infatti un’ampia produzione di metano di origine biologica in un Paese dotato della più estesa rete europea di gasdotti e di parco autoveicoli a metano.
Secondo motivo: il biogas, se ben fatto, rappresenta una grande opportunità per l’agricoltura e per l’ambiente, in quanto concorre all’integrazione del reddito agricolo e alla valorizzazione di sottoprodotti che altrimenti vanno trattati come rifiuti, spesso fonte di inquinamento: deiezioni animali, sansa di olive, pastazzo d’arance, bucce di pomodoro, per fare alcuni esempi. Il terzo motivo riguarda il rilancio in Italia di politiche organiche per lo sviluppo della produzione di energia elettrica e termica da fonti rinnovabili, consolidando un modello di produzione distribuita.
Il biogas, e più in generale le agroenergie, sono una fonte energetica indissolubilmente legata alle economie agricole locali e ai contesti territoriali. Di conseguenza, il loro sviluppo corretto non può che essere altamente decentrato. Per questo motivo è meglio distinguere tra impianti di biogas industriale, alimentati per esempio dalla frazione organica dei rifiuti solidi urbani (Forsu) o da scarti agroindustriali, che possono avere grandi dimensioni ed è bene siano situati in aree industriali attrezzate, e impianti di biogas agricolo, che è bene stiano nell’azienda agricola, di piccola taglia e gestiti da agricoltori.
Tre criteri sono fondamentali per un buon biogas a servizio del territorio:
• Il tipo e l’origine delle materie prime
È opportuno che derivino principalmente dal fondo di proprietà del gestore e che la loro produzione sia fatta in integrazione e non in sostituzione della produzione alimentare. In generale è corretto privilegiare l’uso di sottoprodotti aziendali, ma anche le colture dedicate (penalizzate dall’attuale sistema di incentivi) possono dare un contributo virtuoso, senza necessariamente togliere spazio alla produzione di cibo. Teniamo presente che nell’ultimo ventennio in Italia sono stati abbandonati 2,3 milioni di ettari di terre coltivabili secondo i dati Istat. Un terzo circa di questi terreni è stato cementificato e quindi irreversibilmente perso, ma una parte sarebbe tuttora coltivabile. Il problema non è ‘quanto’ ma ‘quali’, ‘come’ e ‘dove’ fare colture dedicate. Oltre al mais, esistono molte altre colture idonee alla digestione anaerobica – per esempio cereali minori, trifoglio, erba medica, sulla – che possono essere coltivate in avvicendamento con produzioni alimentari, favorendo in tal caso l’incremento di sostanza organica nel suolo, a beneficio delle stesse colture alimentari, l’aumento di biodiversità e al tempo stesso migliorando la ritenzione idrica nel suolo e riducendo i rischi patogeni per le piante. Oppure si possono utilizzare terreni agricoli abbandonati, contaminati o marginali, inserendo colture ad alta efficienza di carbonio, anche pluriennali (per es. canna comune, che ha una resa in metano paragonabile al mais), aumentando la produzione lorda vendibile dell’azienda agricola. Trattandosi di terreni abbandonati spesso di collina o montagna, anziché fonte di competizione col cibo, può essere l’opportunità di riavviare colture alimentari che di per sé non darebbero reddito sufficiente, e di migliorare la stabilità dei versanti;
• Gli aspetti igienico-salutistici
Di recente, oltre alla denuncia degli odori sgradevoli emessi da alcuni impianti, si è diffuso il sospetto che la digestione anaerobica e il successivo spandimento del digestato sui terreni possa favorire lo sviluppo di microrganismi dannosi. In particolare di spore di Clostridi, una grande famiglia di batteri anaerobi ubiquitari (sono presenti nel suolo e normalmente anche nel nostro intestino e sono tra i principali attori della fase di idrolisi del biogas) che comprende anche specie responsabili dell’alterazione dei formaggi e specie che possono provocare gravi infezioni, compresi botulismo e tetano. I Clostridi, in condizioni ambientali particolari, formano spore resistenti al calore, alla radiazione e a diversi agenti chimici, per cui anche la pastorizzazione risulta inefficace. Il rischio di aumento di spore è legato all’impiego di materiali fermentescibili, come gli insilati. Ma vari studi scientifici condotti in questi anni a livello internazionale non hanno rilevato presenze significative da un punto di vista epidemiologico di batteri patogeni nel digestato derivato da effluenti animali. Si è rilevato anzi una relazione inversa tra tasso di produzione di metano e presenza di spore batteriche.
In generale l’uso del digestato al posto del letame, o dei reflui tal quali, aiuta a ridurre il rischio di veicolare batteri patogeni. In ogni caso per migliorare la sicurezza igienico-ambientale degli impianti sono opportune alcune pratiche: l’omogeneità e tracciabilità delle materie prime in ingresso; adeguati sistemi di ricezione e stoccaggio delle materie prime e di alimentazione del digestore, con vasche chiuse in modo da evitare emissioni di cattivi odori; adeguati sistemi di stoccaggio e copertura del digestato per evitare emissioni residuali di metano; la separazione della frazione secca del digestato, compostabile e utilizzabile come ammendante, dalla frazione liquida, in cui si concentra buona parte dell’azoto in forma ammoniacale, utilizzabile come fertilizzante a pronta resa, in sostituzione di urea e altri concimi chimici. Se l’azienda poi opera in zone sensibili ai nitrati, come spesso accade nel caso della zootecnia, l’essiccazione del digestato consente di ottenere un fertilizzante vendibile e facilmente trasferibile in altri territori;
• L’efficienza energetica
Due terzi circa dell’energia prodotta da un impianto a biogas è sotto forma di calore, in minima parte utilizzabile per riscaldare il digestore. Spesso le aziende agricole operano lontane da centri abitati o centri industriali, ma non è una buona ragione per dissipare energia. Se un’azienda ha processi di lavorazione interni, quali per esempio un caseificio o un frantoio, questo calore può essere impiegato a sostegno di tali processi. In caso contrario, resta comunque un’applicazione di grande utilità economico-ambientale: l’essiccazione del digestato.
Molte responsabilità comunque restano alle politiche nazionali, a partire dall’emanazione dei decreti sul biometano, e alle politiche locali, che per lungo tempo non hanno minimamente tentato di governare la proliferazione di impianti sui loro territori e di sviluppare piani energetici di area. Questi non avrebbero alcun potere cogente, ma consentirebbero di capire quante risorse può offrire un territorio e quanti impianti di conseguenza può accogliere.
Sarebbe un atto importante e per gli stessi investitori. Senza dimenticare il coinvolgimento delle comunità locali. Un piccolo Comune del Senese, Buonconvento, nei mesi scorsi ha fatto una scelta esemplare. Di fronte alla contestazione di alcuni progetti di impianti a biogas, ha scelto il coinvolgimento della cittadinanza, avvalendosi di un’ottima legge toscana sulla Partecipazione. Una società specializzata in sondaggi ha selezionato un campione rappresentativo di cinquanta cittadini che per due sere si è confrontato con esperti a favore ed esperti contro il biogas, per poi decidere in modo autonomo e vincolante rispetto all’amministrazione comunale. È stata una grande opportunità di crescita di conoscenze – anche per gli stessi esperti costretti al ‘cimento’ – e di confronto pacato. Un esempio da esportare in molti Comuni italiani.
L’articolo è stato pubblicato sul n.3/2013 della rivista bimestrale di QualEnergia, con il titolo “No nel mio tubo”. L’autore è anche Responsabile agricoltura di Legambiente.
Vedi anche Speciale “Il Biogas che fa bene al Paese“