L’ultima spiaggia del petrolio

  • 9 Giugno 2008

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I petrolieri americani puntano sulle sabbie bituminose del Canada, suscitando l'apprensione degli ambientalisti. Un report di due associazioni nordamericane sulle conseguenze ambientali dello sfruttamento delle tar sands.

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Con il petrolio attorno ai 130 dollari al barile – e previsioni di prezzi in ulteriore crescita – anche i metodi più costosi e inefficienti per ottenere l’oro nero tornano ad essere appetibili per le aziende del settore. È il caso dell’estrazione di petrolio a partire dalle sabbie bituminose. Un metodo e un processo che, anche se reso più efficiente dalle evoluzioni tecnologiche, resta molto più energivoro e costoso rispetto alla normale estrazione dai pozzi, ottiene dal bitume greggio di qualità piuttosto bassa che è mischiato ad alcune sabbie. E’ disponibile a cielo aperto in diversi punti del pianeta.

Il petrolio da sabbie bituminose, accantonato per molto tempo a causa dei costi di estrazione, sta dunque tornando in auge: è di fine maggio la notizia che Eni ha ottenuto dal governo del Congo una concessione di una superficie di 190 km2 per sfruttare le sabbie petrolifere del paese. Il Congo, assieme al Venezuela, è tra i tre paesi che dispongono dei più vasti giacimenti di sabbie bituminose, in inglese tar sands.

Il primato della disponibilità di tar sands va però al Canada: nello stato dell’Alberta ci sono distese enormi di sabbie bituminose che hanno attirato l’attenzione dei petrolieri. In un report pubblicato lo scorso 4 giugno due associazioni ambientaliste, la statunitense Environmental Integrity Project e la canadese Environmental Defence Canada, hanno fatto il punto della situazione e lanciato un allarme per le conseguenze ambientali che si prospettano con il massiccio sfruttamento delle tar sands.

Sembra, infatti, che il tentativo di allentare la dipendenza dai fornitori della penisola arabica, sarà basato principalmente sullo sfruttamento delle sabbie canadesi. Due terzi dell’aumento della capacità produttiva degli Usa appunto verrà dalle tar sands: 1,1 milioni di barili su una produzione di 1,6 milioni.
Estrarre petrolio dalle sabbie bituminose, però – sottolinea il report – è un processo che richiede molta energia e produce emissioni tre volte maggiori rispetto ai metodi tradizionali. I sottoprodotti della lavorazione delle tar sands, inoltre, non sono solo le emissioni di anidride carbonica ma anche pericolosi inquinanti come biossido di zolfo, acido solfidrico, ossido di azoto e anche metalli tossici, alcuni come composti di piombo e nichel. Altro problema l’enorme necessità di acqua che serve alla lavorazione delle sabbie e l’impatto sull’ecosistema della foresta boreale: lo sfruttamento delle tar sands comporterebbe oltre a deforestazione la creazione di grandi laghi tossici.

Per Ben Wakefield di Environmental Integrity Project, principale autore del documento, l’industria petrolifera statunitense “sta impegnandosi a perpetuare, per le prossime generazioni e oltre, la dipendenza degli Usa e del mondo dal petrolio e sta legando questa dipendenza a fonti di petrolio ancora più sporche e distruttive delle attuali. Stanno realizzando l’infrastruttura non solo per accrescere la dipendenza da petrolio, ma anche aggravare ulteriormente il cambiamento climatico”.

Il primo ministro canadese Stephen Harper la settimana scorsa ha cercato di rassicurare la comunità internazionale sulla questione tar sands: “Il Canada intende divenire una superpotenza dell’energia, ma anche una superpotenza pulita” ha dichiarato a Londra durante un incontro fra le Camere di commercio di Canada e Regno Unito e ha assicurato che il suo governo imporrà limiti di emissioni più stringenti alla lavorazione delle sabbie bituminose. Dichiarazioni alle quali gli ambientalisti canadesi di Environment Canada hanno ribattuto osservando che eventuali misure inciderebbero solo sulle emissioni relative per barile prodotto e non sulle emissioni totali, che aumenterebbero comunque moltissimo.
Una tribù indiana, la Chipewyan Prairie First Nation, ha intanto intrapreso un’azione legale contro il governo dello Stato dell’Alberta: i nativi non sarebbero stati consultati prima di concedere ai petrolieri i territori dei giacimenti di sabbie bituminose, territori che costituirebbero riserve tradizionali di caccia e pesca della tribù.

GM

6 giugno 2008 

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