La futura filiera per produrre e distribuire idrogeno verde rischia di essere poco efficiente e poco sostenibile dal punto di vista ambientale.
Questo, in sintesi, il pensiero di ReCommon – associazione che promuove la transizione energetica pulita – in un briefing intitolato “L’illusione dell’idrogeno verde” a cura di due attivisti, Elena Gerebizza e Filippo Taglieri.
Le loro argomentazioni sono basate su un recente studio, a firma di Leonardo Setti (Università di Bologna) e Sofia Sandri (Centro per le Comunità Solari), che approfondisce la sostenibilità economica della filiera produttiva di idrogeno verde in Europa e in Italia. Ne avevamo già parlato in questo articolo: Perché la strada dell’idrogeno verde è ambigua e ancora molto lunga
In generale, ReCommon ritiene che, con la scusa della produzione e del trasporto di idrogeno green, le grandi compagnie energetiche vogliano mantenere in vita ed espandere le infrastrutture del gas, a discapito di maggiori e più urgenti investimenti nelle fonti rinnovabili.
Difatti, nella visione delle multinazionali oil&gas, servirà una vasta rete europea di gasdotti per trasportare H2, non solo quello propriamente verde, prodotto da elettricità 100% rinnovabile con elettrolizzatori. Scrivono Gerebizza e Taglieri (neretti nostri nelle citazioni): “L’obiettivo delle multinazionali del gas non è la decarbonizzazione e tanto meno la sostenibilità, ma la costruzione di un mercato dell’idrogeno nel continente europeo di cui controllano le infrastrutture“.
Ci sono due critiche principali nel briefing.
La prima è che il trasporto su lunghe distanze di idrogeno comporta un notevole dispendio energetico.
In particolare, si osserva che per trasportare idrogeno puro in rete, per raggiungere la stessa capacità in termini di flusso di energia, è necessaria una potenza di compressione circa 3 volte maggiore rispetto ai normali metanodotti.
Nel sistema attuale di distribuzione del gas tramite pipeline in Italia, sono presenti 13 centrali di ricompressione, ogni 100-200 km di rete, necessarie per mantenere la spinta del gas nelle tubature, per una potenza totale installata di 961 MW.
Si stima che per mantenere un pari flusso energetico in una eventuale pipeline con il 100% di idrogeno (la cui fattibilità tecnica è ancora da dimostrare), occorrerebbero circa 20 TWh di energia elettrica ogni anno per alimentare queste stazioni, cioè quanto viene generato da circa 20 GW di fotovoltaico, pari alla potenza totale FV installata oggi in Italia.
Inoltre, serve energia anche per stoccare H2 in forma liquida a -253 °C; per stoccare idrogeno liquefatto si consuma il 30% del suo potere calorifero inferiore (PCI).
Senza dimenticare che lo 0,4% di idrogeno evapora ogni giorno, quindi dopo 4 mesi il 50% di quanto si è immagazzinato si è disperso.
Mentre una nave adibita al trasporto di 15mila tonnellate di idrogeno liquido, consumerebbe circa 2mila ton di H2 per alimentarsi (nella ipotesi di navi con futuri propulsori a idrogeno), considerando un viaggio di andata/ritorno tra Europa e Cina.
Il punto è che bisogna prestare molta attenzione al tipo di filiera che si intende attivare e promuovere: un conto è pensare a una produzione più limitata di idrogeno verde con elettrolizzatori presso i principali centri di consumo, come le grandi industrie che hanno effettivamente bisogno di questo vettore energetico per uscire dai combustibili fossili.
Ben diverso è immaginare una vasta rete europea e internazionale volta al trasporto di H2 per migliaia di chilometri, allungando fisicamente tutta la catena di approvvigionamento. In questo secondo caso, si avrebbero molte più inefficienze.
Inoltre, gli autori del documento di ReCommon, sempre basandosi sui dati dello studio di Leonardo Setti e Sofia Sandri, spiegano che sarà molto difficile produrre in loco in Italia H2 verde per i bisogni industriali, a causa del forte consumo di suolo associato alla realizzazione degli impianti Fer.
Ricordiamo che la Strategia nazionale prevede 5 GW di elettrolizzatori al 2030 con un target produttivo pari a 700mila tonnellate.
Ma per alimentare un solo elettrolizzatore da 100 MW, secondo le stime fornite dallo studio, ci vorrebbe una potenza eolica di 375 MW o 625 MW fotovoltaica, pari rispettivamente a circa 11.000 e 862 ettari di superficie; in sostanza, per fornire elettricità ai 5 GW di elettrolizzatori, sarebbe necessaria una superficie complessiva di 550mila ettari di eolico o 43.100 ettari di fotovoltaico (5.500 o 431 kmq).
Ciò nella ipotesi di voler impiegare esclusivamente elettricità da fonti rinnovabili intermittenti.
Pertanto, si conclude, “sarebbe oggettivamente impossibile posizionare gli impianti per la produzione di energia rinnovabile a ridosso degli impianti di produzione di idrogeno”.
In definitiva, gli autori criticano in modo particolare il modello di produzione-trasporto di idrogeno basato su una filiera molto lunga, perché in questo caso aumentano le inefficienze (ad esempio le dispersioni di energia) ma va detto che questo non è il solo modello perseguibile.
Non è strettamente necessario che ci sia una prossimità fisica tra elettrolizzatori e impianti a fonti rinnovabili: i primi possono alimentarsi di energia rinnovabile acquistata dalla rete, magari utilizzando contratti PPA dedicati, da parchi eolici e fotovoltaici situati in altre regioni. E si possono creare reti di trasporto di H2 per distretti industriali e altri centri di consumo senza necessariamente dover realizzare infrastrutture estesissime.
- Link al briefing (scaricabile con registrazione gratuita)