L’idrogeno blu? Peggio del carbone

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Alcuni dati smontano la sostenibilità della tecnologia dell'idrogeno blu che il settore dell'Oil&Gas si ostina a presentare come una scelta green.

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L’ultima invenzione del complesso industrial-minerario dell’Oil&Gas, è l’idrogeno multicolore.

Una tavolozza di tinte da far invidia a Raffaello: dal grigio (idrogeno ottenuto dal metano) al verde (ottenuto per elettrolisi da elettricità rinnovabile), passando per blu (come il grigio, ma con la cattura della CO2), rosa (da energia nucleare), nero (dal carbone), marrone (dalla lignite).

Stringi stringi, però, quello che preme veramente a chi ha fatto di più per affossare la transizione energetica nei decenni scorsi, è la versione blu, colpo di genio per riuscire a sfruttare ancora un po’ di più i giacimenti di metano e le relative infrastrutture.

Non importa che la tecnologia per stipare sottoterra miliardi di tonnellate di CO2, la cosiddetta CCS, sia ancora non provata, non definita e non approvata, molto costosa, incerta nella sua capacità di mantenere sepolta la CO2 per secoli e millenni e potenzialmente insicura per chi vivrà attorno ai depositi di quel gas (vedi tragedia del lago Nyas).

Ormai Oil&Gas ha trovato il modo di continuare con il business as usual e presentarsi come paladina del clima, e non molla il bastone della grancassa mediatica su cui ripete che l’idrogeno blu è pulito e che sarà indispensabile fino a che non maturi il cuginetto verde, il quale, in realtà, è molto più maturo e provato del blu e ha solo bisogno di passare ad essere prodotto su grande scala, per calare di prezzo.

Ma siamo sicuri che veramente l’idrogeno blu sia “pulito”, nel senso che sarà in grado di trasformare il “doppio gas serra” metano (altera il clima sia se fugge in aria come tale, che se viene bruciato, liberando CO2) in un idrogeno “innocente” come quello ottenuto per elettrolisi con energia rinnovabile?

Ne dubitano fortemente Robert W. Howarth, ecologo alla Cornell University, e Mark Z. Jacobson, ingegnere ambientale alla Stanford University, che hanno pubblicato su Energy Science & Engineering, uno studio dal titolo eloquente “Quanto è verde l’idrogeno blu?” (allegato in basso).

«Il primo punto da considerare è che la stessa conversione in idrogeno, che richiede la produzione di vapor d’acqua da far reagire con il metano e poi la separazione dell’idrogeno dagli altri gas, consuma energia, e quindi metano: produrre idrogeno da metano vuol dire quindi buttare via una larga parte della sua energia e consumarne di più», spiega Howarth.

«Il secondo importante punto è che la CO2 prodotta durante la conversione non viene del tutto catturata dal CCS: in genere ne finisce in aria circa il 15% di quella che si sarebbe prodotta bruciando direttamente il metano».

Insomma, già la conversione di metano in idrogeno fa consumare più metano, aumentando la quantità di CO2 prodotta, e di questa circa un sesto finirà comunque in atmosfera.

«Inoltre, anche la cattura della CO2 richiede energia; quindi, altro metano consumato in più e ulteriore CO2 prodotta che in parte sfuggirà al CCS, finendo in aria», continua Howarth.

«In totale a secondo della tecnologia usata, si aggiungono all’atmosfera fra 39 e 51 grammi di CO2 per ogni MegaJoule di energia ottenuta come idrogeno blu. Per confronto bruciando direttamente gas naturale si emettono circa 60 grammi di CO2 per MJ ottenuto, quindi, la riduzione della CO2 è minima, passando da uso diretto del metano a quello dell’idrogeno blu».

Ma non basta. Attraverso tutta questa manipolazione di enormi quantità di metano, il gas stesso tende a sfuggire, e aggiungere così il suo grande potere di gas serra all’atmosfera.

«Abbiamo considerato che il metano rilasciato, che ha un potere di gas serra 80 volte superiore a quello della CO2, resti in aria, prima di degradarsi, per circa 20 anni, contro i secoli della CO2», dice Jacobson.

«Secondo i nostri calcoli – aggiunge – il metano che sfuggirà nel processo per ottenere l’idrogeno blu, aggiungerà da 80 a 100 grammi di CO2 equivalente all’atmosfera per ogni MJ di idrogeno, più dei 75 g CO2eq/MJ, normalmente associati all’estrazione e uso del metano bruciato direttamente».

Il risultato finale è disarmante: l’idrogeno grigio, ricavato dal metano senza CCS, secondo i due autori aggiungerebbe, fra CO2 e fughe di metano, 160 g di CO2eq per MJ di energia ottenuta; l’idrogeno blu migliora leggermente le cose, grazie al CCS, aggiungendo comunque circa 140 g CO2eq/MJ in atmosfera. Ma ciò è più di quanto accade bruciando direttamente il metano. 120 g CO2eq/MJ!».

Insomma, per i due ricercatori, produrre idrogeno blu, oltre a ottenere un gas molto più complicato da usare nelle attuali infrastrutture del metano, da un punto di vista climatico è peggio che bruciare direttamente il gas naturale.

«La tecnologia dell’idrogeno blu è così pessima da rendere l’idrogeno ottenuto peggiore da un punto di vista climatico persino del carbone, che emette circa 130 g CO2eq/MJ e del gasolio, che al confronto è ‘pulitissimo’, emettendo solo 90 g CO2eq/MJ», spiega Jacobson.

Bisogna dire che i ricercatori hanno stimato delle perdite di metano durante queste operazioni di estrazione del metano e della sua conversione in idrogeno pari al 3,5% del totale, piuttosto che dell’1,7% medio indicato dalla IEA.

Il loro valore è tipico dell’estrazione dello shale gas (fatturazione idraulica delle rocce affinché liberino il gas naturale) molto diffuso negli Usa, ma non dei giacimenti convenzionali.

«Ma anche riducendo il livello delle perdite di metano a quelle medie dell’estrazione convenzionale, cambia poco: l’idrogeno blu altera il clima più o meno quanto la semplice combustione di metano. È insomma una tecnologia fallimentare per la sostenibilità, che nessun governo che voglia veramente rispettare gli accordi di Parigi dovrebbe incentivare o facilitare equiparando il metano blu a quello verde», conclude Jacobson.

Vedremo ora come risponderà l’industria dell’Oil&Gas a questa spietata demolizione della loro tecnologia per presentarsi come paladini dell’ambiente.

Certo è che anche se Howarth e Jacobson avessero esagerato con le loro stime (la loro ricerca è stata comunque passata al vaglio di altri esperti, prima di essere pubblicata), resta il fatto che la tecnologia dell’idrogeno, già a lume di naso, sembra avere poco senso: perché privare il metano di buona parte delle sue comodità di trasporto e potere calorifero, per trasformarlo in un gas molto meno utilizzabile con le infrastrutture attuali?

Se proprio il comparto dell’Oil&Gas smania per usare le proprie riserve di metano e per seppellire da qualche parte la CO2 che crea bruciandole, allora produca prima vero idrogeno verde per elettrolisi con le fonti rinnovabili, così da ottenere come “scarto” tantissimo ossigeno.

Potrà poi usare l’ossigeno “verde” così ottenuto per alimentare le attuali centrali a metano, al posto dell’aria, ottenendo così CO2 pura, cioè non mescolata con azoto e altri gas, che può essere immediatamente pompata nel sottosuolo, senza una complessa ed energivora separazione.

Avrà così prodotto idrogeno verde per l’industria e i trasporti, e al tempo stesso utilizzato nelle attuali infrastrutture il suo metano, senza aggiungere troppa CO2: una soluzione win-win.

Cara Oil&Gas, ti regaliamo l’idea, purché la pianti con la pericolosa bufala dell’idrogeno blu.

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