Il documentario di Michael Moore che piace tanto all’estrema destra antiambientalista

Planet of the Humans, il docufilm prodotto da Moore, è un lavoro di pessima qualità con tante tesi scorrette solo per avallare gli attacchi alle rinnovabili. Qualche critica legittima. Nessuna proposta o soluzione.

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È come se l’Ambasciata israeliana distribuisse copie del Mein Kampf, o il presidente del WWF si presentasse in pubblico vestito con una pelliccia di panda.

Questo, con le dovute proporzioni, l’effetto di sconcerto che ha prodotto il documentario Planet of the Humans (visibile fino a fine maggio gratis, si veda qui sotto) su chi studia e lavora seriamente sulle strategie per la transizione energetica.

E non tanto perché il docufilm attacca violentemente rinnovabili e auto elettriche, né perché è stato fatto uscire per l’Earth Day 2020, come ciliegina sulla torta gettata in faccia a chi punta e spera in una svolta verde per l’economia mondiale.

Ciò che brucia è che il suo autore non sia un fanatico antiambientalista, o uno scienziato venduto all’industria del carbone, ma Michael Moore, il regista e autore statunitense, famoso per i suoi caustici lavori contro temi cari ai conservatori americani: dalla libertà di armarsi (Bowling at Columbine), alle ingiustizie del sistema sanitario (Sicko), fino ai retroscena petrolifero-finanziari dell’attacco dell’11 settembre 2001 (Fahrenheit 11/9)  o della recessione  del 2008 (Capitalism, a love story).

Planet of the Humans, in realtà, è diretto dall’ex attivista ambientalista (per la serie “non c’è più fanatico di un convertito…”) Jeff Gibbs, ma Moore ne è produttore esecutivo, e quindi ne ha supervisionato ogni fase, in pratica firmandolo tanto quanto il regista.

E così è il marchio “Michael Moore” viene associato al documentario ogni volta che se ne parla, soprattutto dalla destra estrema antiambientalista, che, ricevutolo come un dono dal cielo, lo sta propagandando ovunque, con il nome del “comunista” come “bollino di garanzia”.

La tesi di Planet of the Humans che Moore avalla è che sperare nelle energie rinnovabili sia l’equivalente “di sinistra”, del credere che la Terra abbia una capacità infinita di fornirci risorse e di assorbire i nostri scarti: per Gibbs, l’Umanità è ormai condannata a una rapida estinzione a causa dell’eccessiva crescita demografica unita al trionfo del capitalismo più rapace, pannelli e turbine eoliche non sono la salvezza, ma solo un’altra inutile e dannosa merce messa sul mercato.

Per arrivare a dimostrarlo l’autore commette ogni genere di scorrettezza: dall’intervistare solo esperti favorevoli alla sua tesi (compreso uno, Ozzie Zehner, che è produttore dello stesso documentario), al distorcere e nascondere dati o impiegarne di vecchi, dal presentare come esaustivo un quadro molto parziale del tema fino all’estrapolare pezzi di dichiarazioni dei suoi bersagli preferiti (dal miliardario “verde” Michael Bloomberg ad Al Gore, fino al fondatore dell’organizzazione 350.org, Bill McKibben), per demonizzarli.

Facciamo alcuni esempi, ma per più dettagli qui c’è una raccolta di recensioni in inglese.

Gibbs liquida l’energia solare come una mezza truffa, facendo affermare dal primo che passa che i pannelli FV hanno una efficienza dell’8% e durano solo 10 anni, e che quindi non possono recuperare neanche l’energia fossile usata per costruirli: una tesi confutata da anni di ricerche sull’Eroei del solare, che indicano il recupero dell’energia avvenga in meno di 3-4 anni, contro una vita di 25-30, ma che l’autore non si sogna di menzionare.

Non potendo battere l’energia eolica su questo terreno, visto il suo Eroei ancora più alto, Gibbs la presenta invece come una fonte “ammazza natura”, riprendendo ossessivamente il terreno forestato dove verrà installato un impianto eolico nel Midwest, senza però dire che la stragrande parte delle turbine mondiali sono installate in campi, deserti, colline brulle, praterie o mari, dove non creano particolari impatti ambientali.

Ancora più sporco il gioco sulle biomasse: ne parla come se ne esistesse solo un tipo, quello basato sul legname di foreste tagliate a raso.

Nessuna citazione invece delle tante varianti molto più sostenibili, come quelle che producono calore, biogas o metano dalle discariche o dalla combustione o fermentazione di scarti.

E poi secondo lui in Germania le biomasse producono molte volte più energia di solare o eolico, mentre in realtà producono circa un quinto dell’elettricità solare ed eolica tedesca. Uno errore (o balla) reso ancora peggiore dal fatto che quella è una delle rarissime volte in cui l’autore mette il naso al di là dei confini Usa per vedere cosa accada nel resto del mondo, forse per timore di imbattersi in fatti contrari alla sua tesi sull’inutilità delle rinnovabili.

Naturalmente non poteva mancare qualche bastonata rivolta alle auto elettriche. Ma anche qui i colpi sono mal diretti e fraudolenti: le accuse sono essenzialmente che le batterie contengono il controverso cobalto e che le auto elettriche sono alimentate con elettricità da carbone, e la prova sono le affermazioni di una impiegata della General Motors alla presentazione della Volt a Detroit.

Il fatto che ci sia un grande sforzo tecnologico per eliminare il cobalto dalle batterie (e riciclare tutto il resto) e che gran parte del resto del mondo utilizza, e userà, sempre meno carbone per produrre elettricità, non sono cose che a Gibbs interessino.

E pensare che, qua e là, fra tanta spazzatura, nel documentario emergono anche critiche più che legittime a certo ambientalismo tecnofilo o filo business, le stesse contenute, per esempio nel recente saggio “Le trappole del clima”, di Gianni Silvestrini e G.B. Zorzoli.

È giusto ricordare che probabilmente non ci salveremo dalla catastrofe climatica, semplicemente sostituendo le tecnologie fossili con altre, senza mettere in discussione l’attuale modello economico basato su crescita infinita, profitti immorali e sprechi immani.

E altrettanto fondata è l’obiezione che il movimento ambientalista dovrebbe tenere a distanza il big business, che spesso punta solo a imporre le soluzioni ad esso più gradite (commercio della CO2 invece che carbon tax, gas naturale come “energia di transizione”, e così via), o a rifarsi una “verginità verde”.

Si dovrebbe invece contare di più sull’intervento diretto o indiretto degli Stati e il coinvolgimento della popolazione nella transizione energetica.

Infine, è verissimo che il mondo della produzione di tecnologie per le energie rinnovabili dovrà comportarsi ben diversamente dalle industrie tradizionali, per esempio, facendo ogni sforzo per usare solo risorse sostenibili, etiche e riciclabili, e impiegando nelle sue industrie sempre più energia verde, anche a scapito dei profitti, pretendendo dalla politica che premi i comportamenti più sostenibili e scoraggi quelli contraddittori.

Ma queste sacrosante obiezioni, su cui si poteva costruire un lavoro ben più profondo, attuale e interessante, si perdono nel mare di spazzatura, provincialismo, tesi precostituite e antipatie ad personam, che Gibbs sparge a piene mani in Planet of the Humans.

Insomma, un lavoro dalla qualità imbarazzante, che non si capisce come abbia potuto essere accettato da Michael Moore, a cui pure non saranno mancati mezzi e conoscenze per fare le necessarie verifiche prima del rilascio del documentario al pubblico

Purtroppo, questa diffamazione in forma di documentario è già stata vista da 6,6 milioni di persone, gran parte delle quali sembrano incapaci di percepirne i gravi limiti, a giudicare almeno dai tanti commenti entusiastici di chi è convinto di aver appena assistito a una grande inchiesta giornalistica, che rivela la “truffa verde” e fa cadere dal piedistallo quei noiosi e supponenti ambientalisti.

È insomma un colpo scorretto e potenzialmente molto grave, sferrato agli sforzi per la transizione verde (e vedremo cosa accadrà quando sbarcherà in Europa…), che ha anche il difetto di non offrire alcuna soluzione alla crisi climatica e ambientale (nucleare, stoccaggio, geotermia o idroelettrico, per dire, non sono nemmeno citati).

“Sputando” ugualmente su fossili e rinnovabili, Gibbs e Moore offrono allo spettatore solo un implicito invito ad arrendersi all’estinzione della specie, e quindi a smettere di sperare e lottare per possibili cambiamenti, pensando piuttosto a godersi la vita fin che si può, naturalmente a colpi di carbone e petrolio… tanto, sono tutti uguali.

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