Come si fa a rifornire di energia un paese relativamente piccolo, lungo e stretto, circondato dal mare, privo di grandi risorse fossili, in gran parte occupato da montagne, con altissimi consumi per l’industria e per la vasta popolazione che vi abita?
Non parliamo dell’Italia, ma del Giappone, una nazione con una superficie e orografia simili a quelle italiane, ma con una popolazione doppia e una economia industriale 2,5 volte la nostra.
Il problema energetico per quel paese privo di risorse fossili (a parte un po’ di carbone) è sempre stato molto difficile da risolvere: l’embargo petrolifero Usa nel 1941, per dire, fu la causa finale della sua entrata in guerra.
Nel dopoguerra, dopo aver basato il suo boom industriale su combustibili fossili in gran parte importati, il Giappone vide nel nucleare la prospettiva di diventare energeticamente autonomo, ma, come si sa, il settore non fu gestito molto bene, e le carenze dei controlli e delle norme di sicurezza, alla fine, furono una grave concausa del disastro di Fukushima.
Adesso il Giappone ha promesso di diventare carbon neutral entro il 2050, riducendo le emissioni dell’80% e compensando il resto, per rispettare gli accordi di Parigi, un compito decisamente in salita per un paese che produce solo il 10% della sua energia primaria senza emettere CO2, e quindi includendo anche i 10 reattori nucleari su 54, ripartiti dopo il disastro.
Nel 2015 il governo decise di investire 700 miliardi di dollari per le energie rinnovabili nei 10 anni successivi, e arrivare al 24% della fornitura elettrica da queste fonti entro il 2030, oltre a un 10-20% da nucleare. Con l’esplosione dei costi energetici da fossili, seguita alla pandemia e alla guerra in Ucraina, ha reso ancora più urgente il raggiungimento di questi obbiettivi. Ma come riuscirci?
In parte si pensa a enormi importazioni di idrogeno e ammoniaca verde dall’Australia, che si sta attrezzando per la produzione e il trasporto di questi gas.
Ma certo i giapponesi non vogliono ritrovarsi di nuovo dipendenti quasi completamente dalle importazioni, e hanno anche piani per auto prodursi gran parte della propria energia rinnovabile: secondo il Renewable Energy Institute, il paese potrebbe coprire i suoi bisogni energetici con 524 GW di fotovoltaico, 147 GW di eolico (63 offshore), 20 di idroelettrico, 6 di geotermico e 20 di import, oltre a 800 GWh di accumulo in batterie di vario tipo.
Energia dalle correnti oceaniche
L’ingegnere energetico Cheng Cheng, della Australian National University, va oltre spiegando su Energy Conversion and Management, che il Giappone potrebbe farcela da solo, approfittando della ricchezza di vento al nord, e di sole al sud, installando soprattutto impianti galleggianti sul mare.
Ma oltre a usare solo la superficie marina, comincia a circolare in Giappone l’idea che il mare stesso potrebbe diventare un’enorme fonte di energia, rinnovabile e in più molto più costante e affidabile.
La prima e più potente di queste fonti, sarebbe la corrente di Kuroshio, l’equivalente per il Pacifico della Corrente del Golfo, che lambisce sia la costa ovest che quella est del Giappone, muovendo continuamente da sud verso nord chilometri cubi di acqua tiepida.
L’azienda giapponese IHI Corporation ha appena completato con successo un test di una turbina per correnti marine, durato per tre anni e mezzo. La gigantesca macchina, che ricorda un aereo e pesa 300 tonnellate, è stata sospesa a 60 metri di profondità nella corrente a sud est del Giappone, e per tutto il periodo della prova le sue due turbine controrotanti, hanno generato i 100 kW previsti senza intoppi, con un fattore di capacità di circa il 60%, il quadruplo di un FV.
Secondo la IHI, che prevede di installare in mare un modello commerciale da 2 MW nel 2030, la sola corrente Kuroshio potrebbe fornire 200 GW di potenza elettrica, il 60% della domanda totale giapponese.
Energia dalle onde
Altra energia marina può poi essere estratta dalle grandi onde che colpiscono continuamente la costa giapponese del Pacifico.
La compagnia di navigazione Mitsui OSK Lines, punta alla tecnologia australiana della Bombora Wave Power, che ha il vantaggio di funzionare sott’acqua, senza i rischi connessi nell’affrontare la forza delle onde in superficie, che in passato ha fatto fallire altri progetti di wave energy.
A dire il vero dal sito di Bombora non si capisce se abbiano mai testato un vero prototipo in mare, o se tutto quello che hanno sono calcoli e immagini fatte al computer.
Comunque, l’idea è ingegnosa: contenitori pieni di un fluido con un coperchio in gomma sono immersi a pochi metri sotto la superficie (piazzati su galleggianti oppure appoggiati al fondo). La colonna d’acqua alzata e abbassata dalle onde, esercita una pressione variabile sui contenitori, spingendo il fluido attraverso una valvola unidirezionale, una turbina e, infine, di nuovo nei contenitori di partenza.
Mitsui investirà nel primo impianto dimostrativo di Bombora al largo del Galles, da 1,5 MW, mentre investigherà sui luoghi più adatti in cui installare impianti simili in Giappone.
Energia dal gradiente termico del mare
La stessa società è impegnata anche in un altro progetto di energia marina: un OTEC, cioè un impianto che sfrutta la differenza di calore fra il fondo dell’oceano tropicale e la sua superficie, che può raggiungere anche i 25 °C, così da far evaporare e poi condensare un gas a basso punto di ebollizione, facendogli muovere una turbina.
L’impianto dimostrativo da 100 kW si trova ad Okinawa, e la Mitsui prevede di ampliarlo a 1 MW entro il 2025.
Energia dalle maree
Ma non è ancora finita: oltre a correnti, onde e il differenziale di calore, un altro modo di estrarre energia dal mare è quello di sfruttare i movimenti periodici e prevedibili indotti dalle maree, un’idea messa in pratica già dal 1963 in Francia. Quel vecchio impianto intrappola la marea in una diga, e poi, quando il mare si abbassa fa uscire l’acqua attraverso turbine.
I moderni impianti a maree, come quello scozzese da 2 MW installato nel 2021 dalla Orbital Marine Power alle Orcadi, usano invece turbine simili a quelle per le correnti, sistemate nei punti del fondale dove il flusso di marea si concentra e raggiunge velocità molto alte. Il vantaggio è che così facendo si frutta la corrente sia all’andata che durante il suo riflusso.
Lo stesso concetto vuole implementare ora in Giappone la Kyuden Mirai Energy, che, dopo aver speso 16 milioni di dollari nel 2021 per un prototipo da 500 kW, adesso, dopo un anno di test positivi, ne sborserà altri 5 per installare una turbina da 1 MW in uno stretto fra due delle isole Goto, lungo la costa occidentale, dove le maree sono abbastanza intense da generare per 12 ore al giorno un flusso di elettricità continuo.
Le criticità e le speranze
Scommettere sul campo relativamente nuove delle energie marine è sicuramente una sfida all’altezza della terza potenza economica e tecnico-scientifica mondiale, ma non priva di rischi: il mare è un ospite difficile per la tecnologia, fra tempeste, collisioni con le navi, corrosione e incrostazioni.
E, fra l’altro, come fa notare su Bloomberg Ken Takagi, esperto di tecnologia oceanica dell’Università di Tokyo, il Giappone non ha neanche molta esperienza di costruzioni in pieno oceano, non avendo mai avuto un’industria petrolifera offshore.
Vedremo se il Giappone saprà farsi ancora una volta alleato il mare, così da ricavare da esso non solo gran parte del suo nutrimento, ma anche una fetta sempre più consistente, e potenzialmente decisiva, della sua energia.
Dopo le delusioni dei fossili e del nucleare, forse saranno onde, correnti e maree a soddisfare il suo sogno di indipendenza energetica. E diventare un esempio anche per altre aree del globo.