I “forever chemicals” o i “prodotti chimici perenni” tendono a non degradarsi per lunghi periodi una volta rilasciati nell’ambiente e a essere facilmente trasportabili in natura, coprendo lunghe distanze dalla fonte di rilascio.
Si tratta di sostanze tornate recentemente alla ribalta in un articolo scientifico pubblicato su Nature. La rivista ha messo in risalto i potenziali rischi legati alla loro presenza nelle batterie al litio, cadendo però in qualche stortura, che rischia di fare da scudo a nuovi attacchi dei critici dell’elettrificazione dei trasporti.
I composti in questione sono tecnicamente definiti come sostanze perfluorurate alchilate (PFAS). Ne esistono migliaia, e quelli usati nelle batterie di auto elettriche costituiscono una sottoclasse, denominata bisperfluoroalchil solfonimidi (bis-FASI).
I PFAS sono utilizzati fin dagli anni ’40 del secolo scorso per respingere l’olio e l’acqua e resistere al calore, e ciò li rende utili in molti prodotti di uso quotidiano.
Perché si usano i bis-FASI nelle batterie al litio
Cerchiamo di fare qui un breve punto della situazione relativa a PFAS e bis-FASI nelle batterie al litio avvalendoci anche del contributo di Concetta Busacca, dell’Istituto di Tecnologie avanzate per l’Energia “Nicola Giordano” del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-Itae).
“Questi composti possono migliorare significativamente le prestazioni della batteria, in termini di stabilità elettrochimica e conducibilità ionica, rendendoli essenziali per le batterie ad alta efficienza”, ha spiegato Busacca a QualEnergia.it.
“Inoltre, i bis-FASI sono caratterizzati da bassa volatilità e infiammabilità, contribuendo anche alla sicurezza della batteria. Queste proprietà li rendono particolarmente utili in applicazioni dove la sicurezza e la durata della batteria sono cruciali”, ha aggiunto.
Limiti di legge e pericolosità di PFAS e bis-FASI
Alcuni tipi di PFAS sono soggetti a restrizioni nell’Ue già da più di 10 anni, in base al regolamento sugli “Inquinanti organici persistenti” (POP), secondo la European Chemical Agency (ECHA). E un certo numero di PFAS è presente come possibile “candidato” all’inclusione nell’elenco Ue delle “sostanze estremamente preoccupanti” nell’ambito del REACH, cioè il regolamento sulla “Registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche”.
Sebbene sia noto che i PFAS, in generale, sono composti persistenti e bioaccumulativi, capaci di rappresentare un rischio per la salute umana e l’ambiente anche a basse concentrazioni, “attualmente, non esistono limiti di legge specifici per i bis-FASI nelle batterie al litio”, ha detto la ricercatrice, confermando le indicazioni dello studio, secondo cui “i bis-FASI non sono regolamentati in nessuna parte del mondo”.
“Negli ultimi anni, l’uso di PFAS in alcuni settori è diminuito a causa della regolamentazione e della consapevolezza dei rischi per la salute. Tuttavia, la persistenza di questi composti nell’ambiente fa sì che l’esposizione possa rimanere significativa anche dopo la cessazione del loro uso”, ci ha detto la ricercatrice, secondo cui “l’esposizione ai PFAS è un tema di crescente preoccupazione pubblica e scientifica”.
A fronte di ciò, va notato che “la biomonitorizzazione ha mostrato una riduzione di alcuni PFAS specifici nel sangue umano”, anche se “la presenza complessiva di PFAS può variare a seconda delle pratiche industriali e della regolamentazione locale”.
La pericolosità dei bis-FASI, così come della maggior parte delle sostanza chimiche, dipende dalla loro concentrazione e dal contesto di esposizione, chiarisce la ricercatrice del CNR.
Presenza e concentrazione di PFAS e bis-FASI
I PFAS, oltre a essere duraturi, sono anche onnipresenti.
Si trovano, infatti, nel settore aerospaziale, per evitare le interferenze nelle comunicazioni e trasmissioni dati dalla cabina di pilotaggio alle ali, alla coda e ad altre apparecchiature; nelle reti di comunicazione, tra cui quelle WiFi e cellulari; nei beni di consumo, tra cui pentole antiaderenti, imballaggi per alimenti, cosmetici, tessuti per la casa e capi di abbigliamento; nei semiconduttori, fondamentali per qualsiasi cosa, dagli smartphone ai fitness tracker indossabili, fino alle tecnologie per la sicurezza nazionale; nelle schiume antiincendio; nei dispositivi medici, come cateteri, stent e aghi, nonché nei cerotti transdermici utilizzati per la somministrazione di farmaci; nei farmaci stessi, compresi quelli salvavita per il trattamento del Covid-19 e quelli più comuni per trattare ansia o depressione; e nelle energie rinnovabili, compresi i moduli fotovoltaici, le turbine eoliche e le celle a combustibile.
“Le schiume antincendio e l’industria tessile sono tra le fonti principali di contaminazione ambientale a causa delle elevate concentrazioni di PFAS e del loro uso diffuso. I rivestimenti antiaderenti per pentole e gli imballaggi alimentari contribuiscono anch’essi, sebbene in misura leggermente minore”, ha detto la ricercatrice, secondo cui “è importante adottare misure per ridurre l’uso e il rilascio di PFAS, oltre a sviluppare alternative più sicure e sostenibili”.
Riguardo i bis-FASI nelle batterie al litio, la loro concentrazione, “pur essendo significativa per la loro funzione, è generalmente più bassa rispetto a quella trovata nelle schiume antincendio. Tuttavia, può essere comparabile o leggermente superiore rispetto alle concentrazioni di PFAS nei trattamenti per tessuti e nelle pentole antiaderenti”, ci ha detto Busacca.
“È importante sottolineare che, a causa della diversa natura e dell’uso di questi prodotti, l’esposizione e il rischio associato ai PFAS possono variare considerevolmente. Ad esempio, mentre le schiume antincendio rilasciano PFAS direttamente nell’ambiente durante il loro uso, le batterie al litio contengono PFAS in un sistema chiuso, riducendo potenzialmente l’esposizione diretta”, ha sottolineato la ricercatrice.
PFAS nel settore degli idrocarburi
I PFAS sono utilizzati anche dal settore petrolifero e del gas per il cosiddetto “fracking”, cioè la fratturazione idraulica della crosta terrestre tramite una miscela di acqua, sabbia e sostanze chimiche iniettata sotto pressione per rompere le formazioni geologiche sotterranee e raggiungere il petrolio o il gas lì intrappolati.
Il fracking ha consentito agli Usa di trasformarsi in pochi anni da un importatore di energia al maggiore produttore mondiale di idrocarburi. In questo contesto, gli PFAS sono usati per ridurre l’attrito delle punte di perforazione quando penetrano nel terreno.
Nell’ultimo decennio, in Texas, le compagnie petrolifere e del gas hanno pompato almeno 21,5 tonnellate di queste sostanze in più di mille pozzi di petrolio e gas in tutto lo Stato, secondo uno studio di Physicians for Social Responsibility (PSR). Tale pratica sarebbe diffusa nel fracking operato in altri cinque Stati americani, oltre il Texas, e cioè Arkansas, Louisiana, New Mexico, Oklahoma e Wyoming.
Gli aspetti problematici dello studio pubblicato su Nature
L’articolo pubblicato su Nature presenta un paio di aspetti problematici, che vanno evidenziati per mettere nel giusto contesto i potenziali rischi che l’articolo segnala circa la presenza di bis-FASI nelle batterie al litio.
- Riciclo delle batterie
Lo studio cita delle vecchie stime, ancora purtroppo molto diffuse, secondo cui solo il 5% delle batterie al litio verrebbe riciclato.
Sulla base di tale stima, gli autori dell’articolo affermano che potrebbero esserci 8 milioni di tonnellate di rifiuti di batterie al litio entro il 2040, gettati semplicemente in discarica, da cui gli PFAS potrebbero fuoriuscire e disperdersi nell’ambiente.
Il dato del 5% di riciclo è però grossolanamente errato. Risulta infatti sottodimensionato di almeno 10 volte rispetto alla realtà. È possibile addirittura che il tasso di riciclo effettivo delle batterie al litio sia già molto vicino al 90-95% (Riciclo delle batterie e tanta confusione: dati sottodimensionati di 10 volte).
Perpetuare l’idea che il tasso di riciclo delle batterie sia solo del 5%, come fa l’articolo pubblicato su Nature, provoca una serie di distorsioni della realtà e conseguenze indesiderate per la transizione energetica.
Prima di tutto, alimenta la convinzione degli scettici e le politiche anti-elettrificazione e pro-fossili di partiti e organizzazioni che preferirebbero una crescita molto più lenta dei veicoli elettrici e delle batterie. In secondo luogo, un dato così distorto distorcerà anche le priorità politiche e l’allocazione di capitali limitati per la transizione energetica.
- Rilevanza dello studio
Sembra invece un problema di minore entità quello segnalato dalla rivista Vaielettrico, che ha criticato lo studio per avere considerate nelle sue misurazioni solo le fabbriche PFAS di 3M in Minnesota e Arkema in Kentucky, affermando che queste aziende non producono batterie al litio.
Questa non sembra una critica del tutto valida, poiché tali aziende, fra cui lo studio indica anche Solvay, pur non producendo direttamente batterie al litio, forniscono ai produttori di batterie gli PFAS usati nei loro processi e prodotti.
Il rilascio di bis-FASI nell’ambiente potrebbe infatti avvenire in vari stadi della filiera, compresa la produzione di PFAS utilizzati poi nelle batterie. Andrebbe verificato se il possibile rilascio di bis-FASI avvenga più durante la sintesi iniziale del composto da parte delle società chimiche che successivamente durante la sua applicazione nei processi produttivi delle batterie, o ancora dopo durante il riciclo.
È possibile che i produttori di batterie o i loro riciclatori siano più “attenti” delle società chimiche o che i processi nelle diverse fasi di attività lungo la filiera comportino rischi di rilascio diversi.
Sembrerebbe più corretto dire che l’attendibilità dello studio è limitata alla sola fase produttiva dei bis-FASI, che comunque ha una sua rilevanza, senza riguardare direttamente i produttori di batterie.
Trattamento dei bis-FASI e uscita dagli PFAS
“Nonostante il dato del 5% di riciclo sembri essere sottodimensionato, la gestione e il trattamento dei rifiuti contenenti PFAS richiedono attenzione particolare”, ci ha detto Concetta Busacca.
Al netto del fatto che le società specializzate nel riciclo delle batterie al litio, attive soprattutto in Cina e Corea del Sud, hanno tutto l’interesse a non dismettere catodi e anodi su cui vengono usati gli PFAS, il loro eventuale smaltimento “richiede tecniche specializzate, come l’incenerimento ad alta temperatura in impianti appositamente progettati per decomporre i PFAS. Inoltre, sono fondamentali la stabilizzazione e l’isolamento dei rifiuti in discariche sicure, con barriere impermeabili per prevenire la contaminazione del suolo e delle acque sotterranee”, ha detto la ricercatrice.
Anche nei processi di assemblaggio iniziale delle batterie, ci sono tecniche per ridurre o annullare la fuoriuscita di materiale melmoso contenente PFAS, riducendo al minimo l’uso di solventi e la creazione di rifiuti, secondo 3M.
“Investire in tecnologie di riciclo avanzate, migliorare i sistemi di raccolta, aggiornare le normative, aumentare la consapevolezza pubblica e promuovere l’innovazione nei materiali sono passi essenziali per affrontare efficacemente la questione e ridurre l’impatto ambientale e sanitario dei PFAS”, ha aggiunto la ricercatrice del CNR.
A tal proposito, vale la pena dire che 3M ha da tempo annunciato che terminerà entro la fine del 2025 la produzione di tutti i fluoropolimeri, fluidi fluorurati e prodotti additivi a base di PFAS.
La società americana ha indicato di avere “già ridotto l’uso di PFAS negli ultimi tre anni grazie alla ricerca e allo sviluppo in corso”, precisando che “continua a valutare se ci possano essere circostanze in cui l’uso di materiali contenenti PFAS prodotti da terze parti e utilizzati in alcune applicazioni del portafoglio prodotti di 3M, come le batterie agli ioni di litio e i circuiti stampati ampiamente utilizzati nel commercio in una varietà di settori, possa continuare oltre il 2025”.
Da parte sua, Solvay ha quadruplicato gli investimenti in ricerca e innovazione per sviluppare nuove tecnologie non PFAS. Ha inoltre comunicato (pdf) di avere già “eliminato l’uso dei fluorosurfattanti negli Stati Uniti nel luglio 2021 e che, entro il 2026, produrrà quasi il 100% dei suoi fluoropolimeri senza fluorosurfattanti nello stabilimento di Spinetta Marengo in Italia”.
In conclusione, sembra corretto dire che, se da una parte sarà necessaria una maggiore regolamentazione dei bis-FASI, dall’altra, l’evoluzione tecnica, scientifica e di mercato relativa al riciclo delle batterie al litio, all’uso degli PFAS e alle loro alternative nei processi produttivi sono probabilmente già molto più avanti di quanto l’articolo di Nature conceda.