Come abbattere la valanga di emissioni della produzione di acciaio e cemento?

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Le industrie di acciaio e cemento producono ogni anno il 16% dei gas serra, come quelli emessi dagli Usa. Tagliarle è un'impresa complessa, ma alcune aziende e centri di ricerca ci stanno lavorando.

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Mentre ci si accapiglia su come produrre elettricità senza emissioni, su come far marciare auto e camion a batteria e persino sull’opportunità o meno di usare gli aerei, responsabili del 2% della CO2, ben pochi riflettono su come abbattere le emissioni di due settori che producono il 16% dei gas serra del mondo, gli stessi degli Stati Uniti: le industrie dell’acciaio e del cemento.

Forse se ne parla poco perché riuscire a fare qualcosa in merito è un’impresa disperante, sia per le difficoltà tecniche, sia perché si tratta di prodotti di uso così generale e che assicurano margini di profitto così risicati a chi li fabbrica, che provare a cambiarne il metodo di fabbricazione rischia di mettere fuori gioco non solo l’industria siderurgica e cementiera, ma mezza economia.

La produzione dell’acciaio

Solo di acciaio, per dire, ne vengono prodotti 1,8 miliardi di tonnellate nel mondo ogni anno, che finiscono in migliaia di prodotti diversi, con un metodo di produzione che è una “festa” per le emissioni di CO2.

Prima di tutto il minerale di ferro, normalmente ossidi, deve essere ridotto a metallo, e per farlo serve un gas riducente, che strappi via l’ossigeno dal ferro: finora si è usato il monossido di carbonio, prodotto bruciando coke negli altoforni.

La reazione fra ossido di ferro e CO, ovviamente, porta a una valanga di CO2, ma non basta: anche la produzione del coke, che si fa arrostendo il carbon fossile nelle cokerie, produce tanta anidride carbonica, oltre al mix di gas tossici, che ben conoscono a Taranto.

Dall’altoforno esce poi ghisa, una lega ricca in carbonio, che va trasformata in acciaio in convertitori a ossigeno, producendo, indovinate un po’, altra CO2. Infine l’acciaio, scaldato a 1000 °C, viene trasformato in barre, tondini rotaie, lamiere, in grandi laminatoi, che emettono la CO2 prodotta dalle centrali che forniscono l’elettricità per il processo.

Visto però che il primo passaggio da minerale a metallo, da solo, è responsabile della metà delle emissioni, intanto si potrebbe provare a cambiare quello.

Per farlo si possono usare gas riducenti diversi dal CO del coke: all’Ilva di Taranto, per esempio, si sta valutando la possibilità di usare il metano, che sempre CO2 fossile produce, ma almeno salterebbe l’inquinantissima fase della cokeria.

Ma c’è chi studia anche una soluzione ben più radicale: usare l’idrogeno, che produrrebbe, come scarto della reazione con l’ossido di ferro, solo vapore acqueo.

Ci sta lavorando l’azienda siderurgica svedese SSAAB, con il progetto HYBRIT, tre impianti sperimentali di conversione del minerale con idrogeno: se il gas venisse da elettrolisi con energie rinnovabili, ecco allora che avremmo un ferro pronto per essere convertito in acciaio a CO2 zero (vedi anche Idrogeno verde per un’acciaieria: in funzione l’impianto più grande mai realizzato).

Ma, viene da pensare, c’è proprio bisogno di produrre ancora acciaio? Non potremmo farcela con il solo riciclo del rottame di ferro?

Il riuso del rottame comporta solo la sua fusione in forni ad arco, che, se alimentati con energia a zero CO2, non comportano emissioni. E ridurrebbe anche i danni ambientali minerari e le emissioni per il trasporto del minerale.

«Purtroppo no, non si può usare solo rottami», dice Julian Allwood, dell’Università di Cambridge, che consiglia l’IPCC su questi temi.

«L’acciaio da riciclo contiene troppe impurità, derivate dagli altri metalli mescolati con il ferro per essere usato in molti tipi di impieghi. Per esempio, lo si può usare per fare rotaie o tondini per l’edilizia, ma non acciaio inossidabile o lamiere per automobili. Fino a che non si troverà un modo di purificare l’acciaio da rottami durante la fusione, bisognerà continuare a produrne di nuovo da minerali».

E, naturalmente, neanche l’uso di idrogeno per la riduzione del minerale è cosa facile.

Auguriamo ogni successo alle sperimentazioni svedesi, ma già quelli della SSAAB hanno messo le mani avanti: il ferro a zero CO2 costerà il 30% in più di quello convenzionale, praticamente il bacio della morte per un’industria che fatica già a sopravvivere in tutto il mondo al di fuori dell’Asia.

Per avere l’acciaio senza emissioni, bisognerà quindi che i paesi che hanno veramente a cuore i destini climatici del pianeta, sovvenzionino queste tecnologie innovative e/o puniscano con dazi l’acciaio prodotto con fiumi di CO2.

La produzione di cemento

E veniamo all’altro prodotto di maxi consumo del mondo, il cemento.

Di questa polvere magica, che diventa roccia dopo essere stata mescolata all’acqua, e che da 200 anni ha rivoluzionato l’edilizia, il mondo ne produce circa 3 miliardi di tonnellate ogni anno.

Di cementi ce ne sono di tanti tipi. Uno lo producevano già gli antichi romani, mescolando calce e pozzolana vulcanica, ed è di qualità straordinaria, come dimostrano gli edifici ancora in piedi dopo 2000 anni. Ma il più usato è il Portland, una miscela di ossido di calcio, silicati e ossido di alluminio.

Il punto critico è il primo ingrediente: l’ossido di calcio, o calce viva, che si produce arrostendo carbonato di calcio. Il calore fa perdere una molecola di CO2 al minerale, che finisce prontamente in aria.

Altre emissioni, poi derivano dall’arrostimento di tutta la miscela e dalla sua macinatura, ma calore ed elettricità possono essere prodotte anche con fonti rinnovabili: il vero ostacolo è il primo.

Esistono anche cementi che fanno a meno della calce viva, ma sono prodotti in minime quantità e costano cari.

 «Al momento non ci sono soluzioni praticabili al problema di decarbonizzare la produzione di cemento», ammette Allwood.

Se non si può decarbonizzare, però, si può tentare di catturare la CO2 prodotta, per immagazzinarla o usarla per fare altre cose.

A Lixhe, in Belgio, la compagnia cementiera HeidelbergCement sta sperimentando in un suo cementificio la cattura della CO2, usando il lavaggio dei fumi, in una torre alta 30 metri.

Il tutto la fa parte di un progetto europeo chiamato LEILAC, che sta tentando appunto di realizzare la mission quasi impossibile di eliminare la CO2 dall’industria di calce e cemento.

L’esperienza di Lixhe qualche barlume di speranza lo offrirebbe, se solo non avesse richiesto 21 milioni di euro per catturare appena il 2% della CO2 prodotta da quel solo cementificio.

Ma chi lavora nel progetto LEILAC è ottimista, sperando di riprendere parte dei soldi, vendendo la CO2 purissima ottenuta dalla produzione di calce viva, che potrebbe essere già usata per la sintesi di certe plastiche, e in futuro per quella di combustibili “verdi”. Sono così ottimisti che già stanno raccogliendo fondi per aprire il primo cementificio con cattura totale di CO2 in Norvegia.

Quindi… che fare?

Anche se non sarà facile, né veloce, anche nella produzione di cemento e acciaio, si potrebbero avere rivoluzioni tecnologiche per rendere questi elementi di base della nostra civiltà, meno climate-killer, sempre che la politica si accorga di loro e le aiuti, ostacolando la “concorrenza sleale” della loro produzione fatta con immense quantità di CO2.

In attesa che la svolta tecnologica si compia si potrebbe intanto ridurre il più possibile l’uso di acciaio e cemento, visto che il materiale che emette meno CO2 è quello mai fabbricato.

Per farlo servirà evitare consumi e costruzioni inutili, progettare meglio gli oggetti di acciaio e cemento così che ne contengano il meno possibile, riciclare a fine vita quanto più di questi materiali e, infine, sostituirli con altri più sostenibili, come il legno in edilizia o le fibre di carbonio nei mezzi di trasporto.

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