Con quale risorsa energetica fossile potremmo avere una transizione dolce verso un’economia ad energia solare e rinnovabile? Ci sono abbastanza riserve? Non ci stiamo forse illudendo che la situazione sia fin troppo edulcorata grazie alle stime che provengono spesso solo dall’industria del settore? Kurt Cobb, editorialista di diverse testate specializzate, in un suo articolo ha affrontato la questione della “risorsa ponte” utile alla transizione, anche se da un’ottica prettamente americana. Abbiamo illustrato qual è il suo punto di vista sulla situazione del petrolio, molto critica nella realtà, e adesso sintetizziamo la sua analisi su gas naturale a carbone.
Per quanto riguarda il gas naturale, afferma Cobb, si parla di almeno 100 anni di fornitura negli USA ai tassi attuali di consumo annuale. Tuttavia se il gas naturale dovesse diventare la principale soluzione ponte verso la transizione, in sostituzione di carbone e petrolio, anche perché quella a minor impatto ambientale, i suoi consumi accelererebbero moltissimo. Affidandosi al concetto di crescita esponenziale, un approccio spesso trascurato dagli analisti che ragionano su base lineare, potremmo prevedere che con una crescita della domanda del solo 2% all’anno, l’offerta di gas nazionale sarebbe esaurita in 56 anni, con un picco del gas entro 35 anni. E da questo momento i prezzi salirebbe costantemente. Ma questa può sembrare ancora una visione piuttosto ottimistica, perché con tassi di crescita solo di un punto superiori, cioè del 3%, l’esaurimento dell’offerta arriva in 47 anni e il picco si raggiunge tra 31. Con un tasso del 5% la depletion è in 37 anni e il picco dopo 26. E ciò nonostante i dati molto ottimistici forniti dalla EIA (U.S. Energy Information Administration) che prevedono un tasso di incremento annuale della produzione dello 0,4% negli USA fino al 2035.
Il pensiero va allo shale gas e alle speranza riposte in questa risorsa. Ma a portare con i piedi per terra ogni più rosea aspettativa c’è la valutazione di U.S. Geological Survey sulle risorse “tecnicamente recuperabili” dal deposito più grande conosciuto, quello di Marcellus, che sarebbero, rispetto a precedenti valutazioni, minori dell’80% (da 11.600 miliardi di m3 si scende a 2.300). Dunque, le stime fin troppo gonfiate sulle riserve disponibili e un possibile incremento del tasso di crescita non sembrano garantire al gas naturale quel ruolo di “fonte ponte” da poter utilizzare a cuor leggero.
Poi ci sono anche i motivi di impatto sul clima. Secondo le ricerche della Cornell University, infatti, il gas naturale da scisti è peggiore in termini di emissioni anche del carbone se prendiamo in considerazione l’estrazione che rilascia enormi quantitativi di metano in atmosfera e, come sappiamo, il metano è un gas circa 25 volte più potente della CO2. E non parliamo poi dei problemi ambientali come l’inquinamento delle falde acquifere legato al processo di fratturazione idraulica necessario alla sua estrazione, argomento più volte affrontato su questo portale.
Passiamo al carbone. Da alcuni anni diversi studi iniziano a dimostrare che il carbone non è poi così abbondante come si credeva fino a qualche anno fa. Per le riserve USA si stimavano infatti 250 anni. Ma uno studio del National Academy of Sciences già nel 2007 riteneva che questa cifra fosse più vicina ai 100 anni. Anche qui molto dipende dal tasso di crescita dei consumi. I dati EIA per gli States comunque mostrano che il potere calorifico di tutto il carbone presente nel sottosuolo del paese sta declinando dal 1998 nonostante un incremento incessante nella produzione. Il picco del carbone statunitense è già avvenuto dunque nel 1998?
Altri studi, come quello molto famoso dei tedeschi del Energy Watch Group (pdf), pubblicato nel marzo 2007, stimano il picco del carbone intorno al 2025. Qui i ricercatori si riservano di ricordare che ci sono ancora troppi dubbi sulla effettiva qualità dei dati disponibili. Come quelli provenienti dalla Cina, non aggiornati dal 1992, e probabilmente oggi già ridotti del 20%, visti i consumi di carbone del paese asiatico nell’ultimo decennio.
Ma è un altro studio americano realizzato tra il 2009 e il 2010 che riporta dati veramente sconcertanti. E’ stato pubblicato sulla rivista internazionale Energy e valuta che la produzione mondiale di carbone dalle miniere esistenti abbia già raggiunto il picco nel 2011. Sebbene vi siano ampi bacini carboniferi in Alaska e Siberia, gli autori sono consapevoli delle difficoltà di estrazione, oltre agli ingenti costi correlati, che impedirebbero di fermare il continuo declino delle riserve globali, stimato del 50% nei prossimi 40 anni.
In definitiva nessuno conosce veramente l’esatta disponibilità delle risorse energetiche fossili, ma dovrebbe essere lampante che le informazioni provenienti dall’industria non dovrebbero essere prese più come oro colato da coloro che elaborano le politiche energetiche nazionali e mondiali, pena accorgersi poi di essere dentro a guai molto seri. Il nostro sistema ha un continuo bisogno di risorse energetiche; una improvvisa diminuzione di queste porterebbe a farlo vacillare, cosa che sta accadendo, in un certo senso, con gli attuali elevati prezzi del petrolio che soffocano di fatto l’attività economica e incidono sul già fragile sistema finanziario internazionale.
Forse si potranno scoprire altre importantissime quantità di risorse fossili, ma sembra chiaro a tutti che uscire dal sistema basato sui fossili è una scelta obbligata. Dobbiamo capire in che modo: se con una rapida transizione o con crisi continue e molto dolorose. Purtroppo i primi a pagare saranno i meni abbienti del pianeta.