La transizione ecologica che si scontra con una visione troppo settoriale dei problemi

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Le strategie energetico-climatiche devono offrire soluzioni ai problemi creati dalle loro modifiche agli equilibri esistenti, cioè risolvere i loro impatti sociali, territoriali, generazionali e di genere. Nessuno sta seguendo questo approccio nell'elaborazione del Recovery Plan.

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Le Commissioni Difesa di Camera e Senato, entrambe all’unanimità, hanno raccomandato di destinare una parte dei fondi del PNRR al settore militare.

La prima chiede di «incrementare, considerata la centralità del quadrante mediterraneo, la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare, promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali, anche in favore degli obiettivi che favoriscano la transizione ecologica».

La seconda inquadra la proposta «in un’ottica di collaborazione con le realtà industriali nazionali, think tank e centri di ricerca».

Se non mi sono perso altri interventi, mi risulta che, oltre ai commenti sfavorevoli di alcuni media, queste raccomandazioni, apprezzate dal sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulé, secondo il quale corrispondono «alla visione organica che del Piano nazionale di ripresa e resilienza ha il Governo», siano state duramente criticate solo dai Verdi e dalla Rete Italiana Pace e Disarmo.

Conclusa la ricorrenza pasquale, che può avere ritardato altre prese di posizione di condanna di un orientamento parlamentare assunto a ridosso delle festività, il reiterato silenzio dei movimenti e delle associazioni impegnati nella transizione energetico-climatica rivelerebbe una visione troppo settoriale dei problemi, in contraddizione con le premesse del loro impegno.

Giustificare investimenti nel settore militare perché possono favorire la transizione ecologica equivale a mettere il cerone per coprire le rughe.

La “green society” non è perseguibile senza la riduzione delle cause dei conflitti internazionali e l’abolizione dell’uso delle armi per risolverli, uso che, oltre al prezzo in termini di vite umane, di devastazioni e distruzioni, di degrado e inquinamento territoriale, comporta un mostruoso consumo di energia, con conseguente incremento delle emissioni climalteranti.

Più in generale, quanto più sono efficaci, le strategie di contrasto a un fenomeno globale come la crisi climatica sono destinate a modificare in analoga misura equilibri altrettanto globali.

Possono essere geopolitici, come per il calo delle vendite di greggio nei paesi esportatori di petrolio, o riguardare filiere industriali: sta già avvenendo nell’automotive con il passaggio ai veicoli elettrici e, se la decarbonizzazione seguirà traiettorie in grado di contenere sotto i due gradi l’aumento della temperatura globale, lo stesso si verificherà ad esempio nella produzione della plastica e dei fertilizzanti chimici. Tutti settori a forte impatto sociale.

Perché raggiungano questo livello di efficacia, le strategie energetico-climatiche devono pertanto offrire soluzioni ai problemi creati dalle loro modifiche agli equilibri esistenti, che rispetto a questi siano più inclusive sotto il profilo sociale, territoriale, generazionale e di genere.

La prevalenza, nell’agire quotidiano, di una visione iper-settoriale dei problemi ha finora mancato questo obiettivo, creando una situazione solo in apparenza paradossale.

Secondo il direttore scientifico di IPSOS, Enzo Risso, l’86% degli italiani ritiene urgente occuparsi dell’ambiente: una maggioranza che cambia poco al variare degli orientamenti politici degli intervistati.

Tuttavia, in un sondaggio pubblicato il 14 febbraio da “Il Sole 24 Ore” sulle priorità che il governo Draghi dovrebbe seguire nella politica economica e avendo tre risposte a disposizione, solo il 16% degli intervistati ha citato gli investimenti legati all’ambiente e allo sviluppo “green”, finiti al terzultimo posto, preceduti da formazione e lavoro, sanità, rilancio delle imprese, riforma fiscale e della giustizia civile, realizzazione di opere pubbliche e infrastrutture.

E, nel medesimo sondaggio, il 66% ha risposto di non essere ancora riuscito a farsi un’idea sul Recovery Plan, malgrado, insieme alla pandemia, sia al centro del dibattito politico e mediatico.

Sostanzialmente analogo è il risultato di un sondaggio specificamente dedicato al Recovery Plan, pubblicato sul “Corriere della Sera” del 6 febbraio. Sulla rilevanza da assegnare alle sei tematiche del Piano, la salute è stata giudicata molto importante dal 62% del campione, l’istruzione e la ricerca dal 55%, lavoro/famiglia/terzo settore dal 50%, la rivoluzione verde/transizione ecologica dal 49%, la digitalizzazione dal 48%, le infrastrutture e l’alta velocità ferroviaria dal 47%.

Se è comprensibile il primo posto occupato dalla salute, è sintomatico che in fondo per importanza siano finiti, insieme al digitale, la transizione verde e il settore infrastrutture/alta velocità (che di quest’ultima è parte integrante), malgrado siano proprio i temi su cui la Commissione Europea ha maggiormente posto l’accento e che anche i media italiani hanno largamente riecheggiato.

La scissione mentale tra l’astratta importanza attribuita all’ambiente e la concreta priorità assegnata ad altri problemi è il riflesso dell’agire quotidiano da parte dei movimenti e delle associazioni impegnati nella transizione energetico-climatica, nella maggior parte dei casi così focalizzato su obiettivi specifici da trascurarne la relazione causa-effetto sulla vita e sui problemi dei loro concittadini.

Lo stesso atteggiamento è stato finora prevalente nelle valutazioni sulle proposte del PNRR, con l’eccezione, per vastità e concretezza di analisi e proposte, del documento di Legambiente “Per un’Italia più verde, innovativa e inclusiva” che, non a caso, nel corso della presentazione pubblica ha registrato l’eccezionale partecipazione di ben sette membri del governo Draghi (quando si fanno proposte incisive, gli interlocutori più facilmente si trovano).

Unico neo di particolare rilevanza, l’assenza di qualsiasi indicazione sulle riconversioni dell’automotive e del downstream petrolifero, che sono le maggiori criticità indotte dalla transizione ecologica e ignorate anche dalla bozza del PNRR del 12 gennaio.

Trattandosi di due settori con elevata incidenza sul PIL e sull’occupazione, per di più in buona parte localizzati nel Mezzogiorno, l’assenza nel PNRR di proposte per garantirne la giusta transizione creerebbe l’ostacolo maggiore all’attuazione degli obiettivi del nuovo PNIEC, dove il settore mobilità è destinato a trasformarsi maggiormente di quello elettrico e termico.

Come era solito ricordare un filosofo di Treviri, “hic Rhodus, hic salta”. Nascondere i problemi sotto il tappeto, non aiuta a risolverli.

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