Negli Stati Uniti potrebbe arrivare una nuova tassa sulla CO2 da applicare alle importazioni di determinati prodotti, del tutto simile a quella che vorrebbe introdurre Bruxelles con il pacchetto “Fit for 55”.
La misura è inclusa in un progetto di budget da 3,5 trilioni di dollari sviluppato dai Democratici del Senato e contribuirebbe a finanziare le principali iniziative politiche dell’amministrazione Biden, inclusa l’estensione dei crediti d’imposta per le rinnovabili e i veicoli elettrici: ricordiamo che l’American Jobs Plan lanciato lo scorso aprile, vale 2.000 miliardi di dollari di investimenti con parecchie misure dedicate alle tecnologie pulite, tra cui l’obiettivo del 100% di elettricità carbon-free al 2035 e lo sviluppo della mobilità a zero emissioni.
Secondo il senatore Jeff Merkley dell’Oregon, intervistato da Bloomberg, “c’è molto sostegno per questa idea” di una tassa di adeguamento alle frontiere sui prodotti ad alto contenuto di carbonio.
I supporter della misura includono l’ex vicepresidente Al Gore, che ha dichiarato in un’intervista mercoledì a Bloomberg Television che una carbon tax alla frontiera sarebbe un “punto di dialogo” tra l’Unione europea e gli Stati Uniti.
Anche i funzionari dell’amministrazione Biden, riporta Bloomberg, hanno preso in considerazione l’approccio, che potrebbe proteggere i lavoratori domestici e dare un vantaggio ai produttori statunitensi rispetto ai concorrenti stranieri.
Il perimetro e l’entità della potenziale “tassa sull’importazione di inquinanti”, come è stata descritta in un documento di sintesi, non sono stati definiti, ma il piano combacia con gli sforzi di altri paesi, Unione europea in primis, per utilizzare la politica commerciale con la finalità di ridurre le emissioni di gas serra. Inoltre, il piano Usa è in sintonia con la dichiarazione dei ministri delle finanze del G-20, che lo scorso weekend hanno riconosciuto che il prezzo del carbonio è un potenziale strumento con cui combattere il cambiamento climatico.
A differenza dell’Europa con il suo mercato Ets (Emissions Trading Scheme), gli Stati Uniti però, va sottolineato, non hanno mai avuto un mercato nazionale-federale della CO2, da cui trarre indicazioni per realizzare un sistema di carbon pricing alla frontiera.
In Europa, la proposta di istituire una tassa alla frontiera sulla CO2, nei tecnicismi di Bruxelles, si è condensata nel seguente acronimo: Cbam, Carbon border adjustment mechanism, un meccanismo di aggiustamento del carbonio ai confini Ue.
In sostanza, Bruxelles intende imporre un costo della CO2 su alcuni prodotti importati, iniziando da acciaio, cemento, alluminio, fertilizzanti, elettricità.
Il nuovo meccanismo, secondo quanto previsto dal pacchetto “Fit for 55”, partirà nel 2026: gli importatori dovranno acquistare un certo numero di certificati digitali, equivalente alla quantità di anidride carbonica incorporata nei beni importati. Ogni certificato corrisponderà a una tonnellata di CO2 e il suo prezzo sarà correlato al prezzo medio settimanale della CO2 sul mercato europeo Ets.
Se gli importatori dimostreranno, tramite dati verificati da terze parti, di aver già pagato altrove un prezzo della CO2 riferito alla produzione dei beni importati, potranno dedurre quel costo dai certificati Cbam.
Lo scopo del meccanismo è garantire una competizione equa tra aziende europee e aziende straniere per quanto riguarda le regole ambientali.
Obiettivo quindi è far pagare agli importatori lo stesso costo della CO2 che avrebbero pagato se avessero prodotto i loro beni in Europa.
Per il momento, non è dato sapere in dettaglio come dovrebbe funzionare una tassa alla frontiera sulla CO2 per il mercato americano.
Certo la sua eventuale applicazione sarebbe molto complessa con tanti interrogativi cui rispondere: come calcolare il contenuto di CO2 dei prodotti importati? Che livello di prezzo della CO2 fissare in partenza? Come utilizzare i proventi?
Senza dimenticare che una misura di questo tipo, in Europa come negli Stati Uniti, rischia di cozzare contro le regole Wto del commercio internazionale e di incontrare le resistenze di paesi come Cina e India.
Certo un eventuale asse Usa-Ue con una politica coordinata di carbon pricing, in modo da applicare su vasta scala il principio “chi inquina paga”, potrebbe portare anche la Cina a potenziare il suo mercato della CO2, che nelle fasi iniziali ha visto prezzi molto bassi e quindi inefficaci a stimolare investimenti in rinnovabili ed efficienza energetica nei settori coinvolti.